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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.06.2006 La risposta israeliana all'aggressione di Hamas e la doppiezza del gruppo terroristico
cronache e analisi

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 giugno 2006
Pagina: 13
Autore: Davide Frattini - Benny Morris
Titolo: «I tank entrano a Gaza: «Pronti ad azioni estreme» - Leader in esilio contro premier Hamas arriva alla resa dei conti - La doppia voce di Hamas»

Dal CORRIERE della SERA del 29 giugno 2006, una cronaca di Davide Frattini sulle operazioni militari israeliane a Gaza:

GERUSALEMME — La «Pioggia d'estate» è caduta anche sulla testa di Bashar Assad. I caccia israeliani hanno sorvolato la residenza del presidente siriano per ricordargli che «per noi esiste una linea diretta tra Damasco e Hamas», hanno commentato dal ministero della Difesa. Una linea che legherebbe il destino del caporale Gilad Shalit alle pressioni che il regime può esercitare su Khaled Meshal, leader del movimento fondamentalista all'estero. «Meshal guida e ordina gli attacchi terroristici. È un bersaglio», ha minacciato Haim Ramon, ministro della Giustizia nel governo di Ehud Olmert.
La «Pioggia d'estate», come lo Stato maggiore ha ribattezzato l'operazione, ha continuato a cadere su Gaza.
L'esercito è pronto a entrare nel nord della Striscia, dopo essere penetrato per un paio di chilometri a sud. I tank e i mezzi blindati hanno preso posizione nell'area dell'aeroporto (distrutto durante la seconda intifada) e gli abitanti dei villaggi attorno alle piste diroccate hanno lasciato le case per raggrupparsi nella città di Rafah. Che si prepara all'assedio: gli abitanti hanno accumulato scorte di batterie, cibo, candele, mentre i militanti avrebbero minato le strade.
Il bombardamento dell'altra notte ha colpito con nove missili la centrale che produce l'elettricità per tutta Gaza e il 65 per cento della Striscia è rimasto senza luce. Anche l'acqua è razionata. A nord, l'esercito israeliano ha intimato alla popolazione di andarsene: l'incursione in questa zona vuole colpire le cellule che lanciano razzi Qassam verso le città israeliane. Ieri notte in Cisgiordania, nei pressi di Ramallah, militari israeliani hanno arrestato il ministro del Lavoro Mohammed Barghouti. «L'hanno fatto scendere dalla sua macchina a un posto di blocco» è la denuncia delle forze di sicurezza palestinesi.
Ehud Olmert ha ripetuto che l'obiettivo principale dell'operazione militare è riportare a casa il soldato rapito. «Non intendiamo rioccupare Gaza. Ma siamo pronti ad azioni estreme per liberare Gilad». Le parole confermano che Israele, almeno ufficialmente, non vuole trattare per il rilascio del carrista, rapito domenica mattina durante l'assalto al valico di Sufa. Il caporale di 19 anni «sarebbe vivo e starebbe bene», secondo Hind Khury, rappresentante palestinese a Parigi.
Per la prima volta, il governo di Hamas ha offerto uno scambio di prigionieri, come l'«unica soluzione logica». «Altri governi israeliani l'hanno fatto in passato con l'Hezbollah o l'Olp e questo è quello che fanno altre nazioni in situazioni di guerra», ha scritto in un comunicato il ministero dell'Informazione. Per la liberazione dell'ostaggio, sta lavorando il presidente Abu Mazen, anche lui bloccato a Gaza dall'assedio israeliano. Il raìs ha definito «un crimine contro l'umanità» l'attacco che ha colpito i ponti e la centrale elettrica. La Casa Bianca ha chiesto al governo israeliano di evitare «la distruzione non necessaria di proprietà e infrastrutture».
Negoziare o non negoziare è un dilemma che Olmert deve sciogliere, anche perché gli estremisti minacciano nuovi rapimenti. I Comitati di resistenza popolare hanno mostrato la carta d'identità di Elyahu Asheri, un israeliano che vive nella colonia di Itamar. «È nelle nostre mani, lo uccideremo». Le Brigate Al Aqsa, legate al Fatah di Abu Mazen, hanno proclamato di aver sequestrato Noah Moskovich di Rishon Lezion, a pochi chilometri da Tel Aviv. L'annuncio potrebbe essere solo una mossa per scatenare la psicosi, sfruttando il nome di una persona scomparsa, pubblicato da due giorni sul sito della polizia.

Di seguito, un analisi sulle divisioni interne di Hamas:

GERUSALEMME— Khaled Meshal sta cercando di farsi ancora più piccolo del soprannome che gli israeliani gli hanno affibbiato, «il mini- Nasrallah di Damasco». Sa di essere il numero uno della lista nera dell'intelligence di Gerusalemme, un bersaglio che cammina. Se in questi giorni cammina, visto che non risponde più al telefono e ha lasciato la casa dove vive per sistemarsi in un nascondiglio segreto.
Sarebbe lui dietro alla strategia dei rapimenti, modellata sulle operazioni dell'Hezbollah nel sud del Libano. E sarebbe lui che si oppone al rilascio del caporale Gilad Shalit. Prima di sparire, avrebbe dato le ultime istruzioni alle cellule nella Striscia di Gaza: ha consigliato una rivendicazione di gruppo, perché Israele non colpisca un'organizzazione in particolare; ha deciso che il sequestrato doveva essere un militare e non un civile per ottenere «legittimità» nel mondo arabo; ha raccomandato al commando di tagliare qualunque contatto per eludere la sorveglianza elettronica.
Accuse smentite dai suoi portavoce: «E' stupido pensare che i mujaheddin diano retta a qualcuno fuori o dentro la Striscia. Sono autonomi».
Meshal — un ex insegnante di cinquant'anni, è laureato in fisica — avrebbe agito all'insaputa del premier Ismail Haniyeh. «Lavora alle spalle di tutti i dirigenti di Hamas — spiegano fonti dell'intelligence a Yedioth 1997

Ahronoth — e ha contatti diretti con il capo dell'ala militare Mohammed Deif e i Comitati di resistenza popolare. Haniyeh è rimasto sorpreso dall'attacco al valico di Sufa quanto Abu Mazen».
Con l'operazione del tunnel, il leader di Hamas all'estero ha voluto neutralizzare — continuano gli esperti — qualsiasi intesa raggiunta tra il primo ministro e il presidente attorno al documento dei prigionieri. «Il rapimento ha portato alla luce la guerra di potere — scrive Khaled Abu Toameh sul
Jerusalem Post — tra le due leadership di Hamas. Una sfida cominciata con la vittoria alle elezioni di gennaio. Haniyeh vuol far funzionare il governo e dimostrare al mondo che Hamas è in grado di amministrare la vita quotidiana dei palestinesi, Meshal vuol continuare la lotta armata».
Due mesi fa, Meshal aveva accusato Abu Mazen e il Fatah di cospirare con Israele e gli Stati Uniti per far cadere l'esecutivo di Hamas. Haniyeh si era subito dissociato perché sa che il presidente è la sua via d'uscita, l'unico interlocutore per provare a rompere l'assedio economico deciso dagli europei e dagli americani.
Akiva Eldar, politologo e editorialista del quotidiano liberal Haaretz, suggerisce a Ehud Olmert di infiltrarsi nella spaccatura tra le due teste del movimento fondamentalista.
«Il premier deve offrire ai palestinesi di scambiare Gilad Shalit con i due promotori del documento dei prigionieri, Marwan Barghouti del Fatah e Abdul Khaleq Natshe di Hamas. Il loro rilascio sarebbe un colpo decisivo contro Meshal, che è pronto a combattere i bambini ebrei fino all'ultima goccia di sangue dei bambini palestinesi. Sarebbe il vero della volontà di Israele di cambiare le relazioni con la maggioranza della popolazione palestinese».
Un'eliminazione per via politica più micidiale di quella tentata dagli israeliani nel 1997, quando una squadra del Mossad avvelenò Meshal a Damasco senza riuscire a ucciderlo.
Il Mossad tentò di avvelenare Meshal

Sullo stesso tema, l'analisi dello storico Benny Morris:

La crisi attuale tra lo Stato d'Israele e i palestinesi — innescata da mesi di attacchi missilistici di terroristi stanziati a Gaza contro città e villaggi israeliani e, recentemente, dall'ardito attacco dello scorso weekend da parte di una squadra terrorista a una postazione di confine dell'esercito israeliano in territorio israeliano — fa giungere molti nodi al pettine.
L'estate scorsa, quando l'ex primo ministro Arik Sharon ordinò all'esercito e ai coloni di lasciare Gaza, cedendo ai palestinesi il controllo di quel minuscolo territorio densamente popolato, sperava che si potesse arrivare a una certa tranquillità lungo la frontiera tra Israele e Gaza, e che questo potesse essere il primo passo di un più ampio ritiro da gran parte della Cisgiordania che portasse alla pace e alla creazione di uno Stato palestinese arabo indipendente accanto a Israele.
I mesi passati hanno confermato gli allarmi e i timori espressi in quel frangente dalla destra israeliana — che il ritiro desse l'opportunità ai gruppi terroristi e di guerriglia palestinesi di lanciare attacchi verso Israele con relativa impunità. Da allora, infatti, i primitivi missili Qassam fatti in casa continuano a piovere sulla città di Sderot, sulle periferie di Ashkelon e su vari kibbutz al confine. Il ritiro è stato evidentemente interpretato dai palestinesi come un segno di debolezza da parte di Israele e gli occasionali attacchi missilistici di rappresaglia o prevenzione da parte di Israele contro auto e case di terroristi a Gaza — che hanno a volte provocato la morte di innocenti, oltre che dei colpevoli — non sono riusciti a por termine alla violenza.
Ma il ritiro da Gaza ha avuto un altro risultato. La fondamentalista Hamas, che aveva guidato la lotta palestinese (la seconda Intifada) contro Israele negli ultimi cinque anni, è stata mandata al potere dall'elettorato palestinese con il voto dello scorso gennaio. Gli israeliani di tendenza pacifista e gli occidentali hanno sperato che questo avrebbe indotto Hamas a una maggiore moderazione, nonostante il suo atto costitutivo del 1988 proclami la volontà di distruggere Israele attraverso la jihad
(guerra santa), assumendo a giustificazione considerazioni palesemente antisemite, tratte in gran parte (ed esplicitamente) dai «Protocolli dei Savi di Sion».
Ma quel che succede è che Hamas si comporta come Yasser Arafat, il noto leader palestinese scomparso, che, come un ventriloquo, parlava contemporaneamente con due voci, una rivolta ai liberali europei e israeliani, prodiga di rassicurazioni e intenzioni pacifiche, un' altra rivolta ai terroristi, cui ordinava o permetteva di continuare gli attacchi contro Israele. In modo simile Hamas ha annunciato di accettare la sospensione delle ostilità, allo stesso tempo permettendo ad altre fazioni, come la Jihad islamica, di continuare gli attacchi e inviando i suoi militanti ad aiutarli.
L'assalto condotto da Hamas nel weekend alla postazione dell'esercito israeliano di Kerem Shalom (in ebraico «vigneto della pace») potrebbe indicare l'emergere nei ranghi di Hamas di fazioni dissidenti (alcuni biasimano la leadership «esterna» di Hamas, capeggiata da Khalid Mashal, di stanza a Damasco) — o potrebbe essere semplicemente un altro esempio del multiforme modus operandi di questa ambigua organizzazione.
Anche l'intesa di principio di ieri con il partito Fatah su una nuova versione dell'«accordo sui prigionieri» è segnata da doppiezza. Questa mossa improvvisa, dopo settimane di tergiversazioni e cavilli, molto probabilmente è stata sollecitata dal desiderio di evitare l'attacco contro Gaza minacciato da Israele. Ma l'accordo stesso è assai ambiguo, se non decisamente insincero. Stabilisce che i palestinesi si impegneranno nella costruzione di uno stato in Cisgiordania e nella striscia di Gaza lungo i confini del 1967 e che verranno frenati gli attacchi contro Israele. Ma plaude alla resistenza all'«occupazione», che nell'interpretazione di Hamas si riferisce alla presenza ebraica in ogni parte della Palestina/Israele, non solo in Cisgiordania e a Gaza. Il documento non riconosce esplicitamente l'esistenza o il diritto a esistere di Israele e insiste sul «diritto di ritorno» di tutti i rifugiati palestinesi del 1948 e del 1967 — un ritorno di massa che, se messo in atto, significherebbe la distruzione di Israele (i palestinesi sostengono che vi siano 5 milioni di rifugiati, l'attuale popolazione di Israele è composta da 5 milioni di ebrei e 1,3 milioni di arabi).
È troppo presto per valutare i possibili effetti dell'attuale incursione delle forze israeliane a Gaza. Quel che è chiaro è che i due-tre giorni concessi da Israele alla diplomazia — cioè alla mediazione europea — per ottenere la liberazione del soldato israeliano catturato non hanno portato a nulla (dimostrando ancora una volta l'impotenza europea e la sua irrilevanza nel conflitto arabo-israeliano). Il primo ministro Ehud Olmert spera, anche se probabilmente non ci scommette, che la pressione militare, che nei prossimi giorni verrà gradualmente aumentata, possa raggiungere lo scopo — o almeno permetta a Israele di far pagare un alto prezzo ai palestinesi per le loro continue aggressioni contro Israele. Ma nulla di tutto questo servirà alla causa della pace.


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