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La Stampa Rassegna Stampa
28.06.2006 Superman: un'interpretazione ebraica
è la teoria del rabbino Weinstein

Testata: La Stampa
Data: 28 giugno 2006
Pagina: 1
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Superman? Un eroe figlio di Israele»
Dalle pagine culturali della STAMPA, un articolo di Elena Loewenthal:

La scena ha, indubbiamente, un’improbabile apparenza. Suona metafisica quasi quanto il volto arcigno della mamma di Woody Allen che gli fa la ramanzina da sopra i cieli di New York. Eppure, viene quasi da credergli, al rabbino Simcha Weinstein. Sarà per merito del suo faccione incorniciato dalla austera barba nera. Sarà per via di quel suo passato da attore che non si prende affatto il disturbo di occultare dietro il tomo di Talmud che compulsa adesso, nell’austera parte assegnatagli ora dalla vita. Fatto sta che lui è un po’ che lo bisbiglia.
Ma ora che il ritorno di Superman sbanca i botteghini d’oltre Oceano, il rabbino ha deciso di dirlo sul serio e fieramente ad alta voce. Con tanto di filologiche pezze d’appoggio e inequivocabili echi linguistici. L’ultimo segreto che ci mancava in fatto di supereroi è proprio questo: il nostro beniamino in mantello rosso è, incredibile a dirsi, d’ebraica, atavica stirpe.
«Superman è senza dubbio ebreo!», sentenzia allegramente il rabbino Simcha Weinstein. Ma non è solo una battuta di spirito. Con un poco di attenzione e una modesta misura di pazienza, conviene davvero prestargli ascolto. Jerry Siegel e Joe Shuster, i due padri del nostro eroe, erano ebrei. E, benché per la tradizione d’Israele valga il principio della discendenza matrilineare, anche i padri nel loro piccolo contano. Inoltre la data di nascita di questa creatura fantasmagorica ha un che di significativo, anzi d’inquietante. Lui viene alla luce, infatti, nel 1938. Siamo alla vigilia della guerra e della Shoah e, per restare in Italia, proprio allo scoccare delle leggi razziali. Poi, prosegue Weinstein, in «Kalel», il nome kryptoniano di Superman, non è difficile individuare un’eco della lingua ebraica, dove queste due parole, appena sincopate ­ kal (kol) el ­ significano «voce di Dio».
Ma le corrispondenze fra Superman e il popolo d’Israele non si esauriscono in modiche coincidenze cronologico-fonetiche. Che dire di quel mite alter ego che è il bozzolo da cui sorge ogni volta il nostro eroe? Che è una caricatura dell’assimilazione. Di quel desiderio quasi spasmodico di non farsi notare con cui gli ebrei mossero i loro primi passi dentro la modernità. Un Clark Kent qualunque era, per i profughi ebrei approdati a Ellis Island direttamente dai pogrom della Vecchia Europa, la suprema ambizione di invisibilità. L’unica speranza di vivere indisturbati.
Il possente eroe che erompe da quell’ebraicamente agognato guscio di banale normalità, rappresenta invece l’ineludibile diversità. Come Superman, anche gli ebrei si sentono un poco degli extraterresti. Anzi, per meglio dire, per duemila anni e più è stato il mondo circostante a considerarli (quando andava bene), delle creature giunte da un altro mondo.
Ma il nostro Superman-Moishele è certamente qualcosa di più di un pupazzo in formato diasporico. E’ anche e soprattutto un entusiastico sogno di riscatto. Un eroe che trova la propria forza straordinaria, il proprio sconfinato slancio di bontà, nel fatto stesso d’essere diverso dagli altri.
Una specie di alieno in fattezze di timido fusto, venuto di lontano e destinato ad andare lontano. Ma per intanto qui fra noi, disarmate tribù sperdute ai quattro angoli del mondo. Meno male che ogni tanto c’è un rabbino Wienstein a farci cogliere il lato sorridente di una storia così generosa di malinconie.

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