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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
26.06.2006 Il solito occhio strabico del settimanale cattolico
Israele non fa mai abbastanza

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 26 giugno 2006
Pagina: 35
Autore: Gulglielmo Sasinini
Titolo: «L'ultimo tentativo di Abu mazen»

Un’analisi abbastanza corretta nella prima parte nel mettere in evidenza la posizione di rifiuto di Hamas all’esistenza di Israele,  diventa nel prosieguo poco obiettiva quando il focus si sposta sul fronte israeliano.

 

E qui vediamo Olmert tacciato di essere “ambiguo” e “inequivocabile nel dimostrare di non voler riconoscere che dall’altra parte può esistere un interlocutore”.

 

Eppure Olmert e Abu Mazen si sono incontrati nei giorni scorsi, si sono scambiati baci alla presenza del re giordano Abdullah, e la loro intenzione è quella di andare ad un incontro formale fra tre settimane.

 

La volontà del “Governo Olmert” non è “diminuire politicamente Abu Mazen” ma avere la certezza che i colloqui che verranno intrapresi portino a trattative concrete per il futuro della pace, un valore sacro per Israele ma che deve necessariamente essere condiviso dall’interlocutore palestinese.

 

“ Il presidente dell’Autorità palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), dopo l’ennesima escalation tra israeliani e palestinesi, ha assunto l’iniziativa e ha lanciato la proposta di indire, per il 26 luglio, un referendum sul cosiddetto “ documento dei prigionieri”, il testo articolato in 18 punti preparato da alcuni leader detenuti nelle prigioni israeliane, tra i quali Marwan Barghuti, capo dei Tanzim (miliziani di Al-Fatah), che gode di ampio seguito. In sostanza, un referendum per rilanciare i negoziati con Israele, partendo dalla soluzione “due Stati”, che significa un implicito riconoscimento da parte palestinese dello Stato ebraico.

 

Una proposta sensata, che può essere vista come un tentativo di rilancio nel gioco d’azzardo che vede Abu Mazen contrapporsi al Governo palestinese guidato dal leader di Hamas, Ismail Naniyeh, il quale non solo non ha finora dimostrato alcuna volontà di riconoscere la legittimità di Israele, ma ha immediatamente bollato il referendum come “un colpo di Stato contro il Governo legittimamente eletto”. Anche la proposta del portavoce di Hamas di ristabilire il cessate il fuoco, “purchè Israele sospenda gli attacchi militari”, sembra destinato a cadere nel vuoto se non cesseranno gli attacchi con missili Qassam contro le cittadine israeliane.

 

Lo scenario interno palestinese e lo scontro di potere che da mesi vede i miliziani di Hamas e quelli di Al-Fath scontrarsi sanguinosamente nelle strade di Gaza rischiano di diventare ogni giorno più aspri, al limite della guerra civile, e stimolano la volontà di Israele di non accettare alcun dialogo. Il premier israeliano, Ehud Olmert, definisce “molto scarse” le possibilità di un suo incontro con Abu Mazen e liquida con un “privo di significato” il referendum, spingendosi a considerarlo “un gioco interno alle fazioni palestinesi, ininfluente ai fini di sollecitare qualche forma di dialogo tra noi israeliani e loro”.

 

Il buon senso e la logica politica vorrebbero che il premier israeliano appoggiasse le iniziative di Abu Mazen, riconoscendogli il rango di interlocutore, il che tra l’altro farebbe risaltare il suo ruolo rispetto allo spazio marginale che Hamas occupa sulla scena internazionale.

 

Il Governo Olmert, invece, si dimostra più propenso a mettere in ombra e a diminuire politicamente Abu Mazen. Il nuovo premier israeliano non parla il linguaggio duro e diretto di Sharon, il suo è più sfumato, più ambiguo, ma è inequivocabile nel dimostrare di non voler riconoscere che dall’altra parte può esistere un interlocutore. La rabbia della popolazione palestinese e quella dei dipendenti dell’Autorità palestinese, che da mesi non ricevono alcuno stipendio, e la disperazione delle famiglie vittime delle rappresaglie israeliane sembrano aver poco spazio sulla scena. Sullo sfondo resta, esattamente come all’epoca di Sharon, la volontà di non riconoscere che le condizioni per la ripresa del dialogo non vanno solo attese, ma anche parzialmente costruite, così come per tutte le opportunità.

 

E in questo campo i palestinesi sono maestri se pensiamo a tutte le volte che Arafat prima e Abu Mazen poi hanno rifiutato le proposte di pace e i tentativi di riprendere il dialogo offerti loro dai vari leader israeliani.

L’escalation della violenza tra palestinesi e israeliani ha un andamento carsico, ma se nessun canale viene aperto per tentare d’arrestarla, e se in più la risposta militare israeliana si accompagna ai “danni collaterali”, è chiaro che le prospettive non solo non possono essere rosee, ma si ripropone con forza il problema che da quarant’anni accompagna la questione israelo-palestinese, e cioè la mancanza di un vero negoziato.

 

Il pericolo che le equazioni attentato uguale rappresaglia, rappresaglia uguale attentato producano un effetto torpore sull’opinione pubblica israeliana è insopportabile. Il pressante appello di Benedetto XVI perché sia “ripresa la via del negoziato”, abbandonando l’illusione di “risolvere i problemi con la forza o in modo unilaterale” e perché la comunità internazionale si muova per attuare una “doverosa assistenza umanitaria” della popolazione palestinese, non può essere equivocato da nessuno.

 

E a fronte di una popolazione palestinese che ha diritto “all’assistenza umanitaria” c’è una popolazione israeliana che ha diritto di vivere una vita normale, di vedere i propri figli giocare in giardino, senza il pericolo di essere uccisi da un missile Qassam.

A Sderot sono morte cinque persone e negli ultimi mesi sono stati lanciati mille missili: a cosa è servito evacuare Gaza quando quella zona si è trasformata in un campo di battaglia e di addestramento militare per terroristi?

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