Ma il Medio Oriente non è un gioco dietro gli elogi a D'Alema, una concezione sbagliata dell'interesse nazionale
Testata: La Stampa Data: 23 giugno 2006 Pagina: 11 Autore: Aldo Rizzo Titolo: «Il ritorno al gran gioco mediorentale»
L' "equivicinanza" andreottiana tra Israele e palestinesi (in altri temini: tra democrazia e terrorismo), la resa alle ambizioni iraniane, la fuga dall'Iraq: questi elementi della politica estera italiana al tempo di D'Alema sarebbero, secondo Aldo Rizzo, che pubblica un commento in merito sulla STAMPA del 23 giugno 2006, quelli giusti per far rientrare il nostro paese"nel grande gioco del Medio Oriente" . Non è vero, dato che prima del governo Berlusconi il principale ostacolo all'assunzione di un ruolo attivo da parte dell'Italia nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese è stato lo sbilanciamento filo-palestinese, dato che non si vede come la teorizzazione e la pratica del cedimento ai ricatti economici iraniani possano acrescere il nostro status politico nella comunità internazionale e dato infine che il venir meno agli impegni presi con i nostri alleati riguardo all'Iraq danneggia, ovviamente, la nostra credibilità. Ma a prescindere da queste considerazioni, il ragionamento di Rizzo muove da una nozione degli interessi nazionali insensata. In essa contano il "prestigio" della nazione, il coinvolgimento nei processi decisionali, l'occupazione di incarichi di rilievo negli organismi internazionali, gli accordi in favore di un'imprenditoria dipendente dallo stato . Per conseguire questi obiettivi, si può accettare qualsiasi scambio con chiunque. Peccato che prima o poi, inevitabilmente, tutta questa raffinata intelligenza si ritorcerà contro di noi. Coloro che i nostri scaltri politici multilateralistii scelgono come interlocutori nel mondo arabo-islamico, infatti, di norma non perseguono una potenza e un prestigio fini a se stessi. Hanno un'ideologia, con ambizioni universali. E la disponibilità a combattere per la sua affermazione. Una politica estera degna di questo nome, dunque, dovrebbe preoccuparsi di come prepararsi al confronto e di come sconfiggerli. Dovrebbe sostenere il dissenso e la diffusione della libertà e della democrazia. Dovrebbe rafforzare l'alleanza con Israele, unica compiuta democrazia liberale della regione mediorientale. Dovrebbe opporsi intransigentemente ad ogni terrorismo, nella consapevolezza che chi viene risparmiato oggi verrà colpito domani, se la violenza non sarà stata sconfitta prima.
Ecco il testo:
L’ITALIA sta cercando di rientrare nel grande gioco del Medio Oriente. Non che ne fosse mai uscita, ma negli ultimi anni la sua possibilità di manovra si era parecchio ridotta, per l’appoggio quasi incondizionato concesso a Israele, rispetto alla controparte palestinese, e più generalmente per l’adesione senza riserve alla strategia (o all’assenza di strategia...) della superpotenza americana nell’area. Valga il caso del negoziato europeo con Teheran sul nucleare iraniano, per il quale gli stessi ayatollah avevano sollecitato la presenza italiana, accanto a quella di Gran Bretagna, Francia e Germania, ma senza suscitare interesse nel governo Berlusconi. Verosimilmente preoccupato, ma ci si può sbagliare, di irritare il potente alleato e amico di Washington, che all’epoca diffidava di quella triade negoziale, nonostante ci fosse anche Blair. La diffidenza di Bush è diminuita, se non è cessata, e ora ufficialmente gli Usa stanno a un gioco multilaterale, non solo con Londra, Parigi e Berlino, ma anche con la Cina e la Russia, tutti a premere sull’Iran perché si apra a un negoziato sincero. Sarebbero in sostanza i i grandi Cinque del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania, che si sa quanto a quel posto legittimamemente aspiri. E qui rientra in gioco l’Italia, altrettanto legittimamente desiderosa, col suo nuovo governo, di non farsi declassare, ma soprattutto di far valere una nuova linea, una nuova presenza nell’area oggi più che mai cruciale (Israele e Anp, Iraq, Al Qaeda, Iran, difficile immaginare di più, almeno per il momento, a parte la Corea del Nord). Novità non da poco. Mentre Bush, a Budapest per il cinquantennale della prima grande rivolta contro il dispotismo sovietico, poi crollato 33 anni dopo, dice che è la stessa lotta che oggi combattono i neodemocratici di Baghdad (ma nel 1956 gli Usa e la Nato si astennero dall’intervenire, sia pure per comprensibili, e ora disattese, ragioni di Realpolitik), Prodi e D’Alema hanno appena annunciato il ritiro, anche se graduale e tecnicamente concordato, delle truppe italiane dall’Iraq. Confermando la presenza in Afghanistan, perché quella è un’altra storia. Ma anche rilanciando un ruolo italiano sull’Iran. Che poi sarebbe in potenza, con la minaccia dell’arma nucleare, il problema dei problemi, in Medio Oriente e non solo. Certo, D’Alema corre dei rischi, e lo sa. Se dice, come nell’intervista televisiva di ieri, dopo l’incontro col collega di Teheran Mottaki, che l’Iran «non è in procinto di avere armi nucleari», conferma le previsioni a breve (cinque anni?) dei servizi occidentali. Se aggiunge che magari è come in Iraq («scoprire che non c’era nulla»), è troppo ottimista, visto il lungo e provato depistaggio dell’agenzia atomica dell’Onu. Corretto è anche dire che l’Iran ha un «diritto inalienabile» all’energia nucleare civile, più opinabile è vedere il livello dell’arricchimento dell’uranio, in sè legittimo fino a un certo, terribile, punto. In termini politici generali, la questione è se rientrare nel gruppo di punta europeo e globale, per cogestire un grande problema internazionale, a noi vicino geopoliticamente (ed economicamente, 5 miliardi di euro annui di interscambio), o se tentare un diversivo tutto nazionale. D’Alema mostra di essere estraneo a quest’ultima tentazione, sembra voler lasciare, anzi imprimere, il segno di una presenza italiana insieme prudente e costruttiva. L’ipotesi, la speranza, è che ci riesca.
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