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Informazione Corretta Rassegna Stampa
22.06.2006 Gli scrittori israeliani hanno opinioni diverse sulla sicurezza
ma per L'Unità contano solo quelle di chi critica il governo

Testata: Informazione Corretta
Data: 22 giugno 2006
Pagina: 0
Autore: la redazione
Titolo: «»

Meir Shalev, pur essendo israeliano, "si oppone all'uccisione dei bambini palestinesi".
La titolazione dell'intervista di Umberto De GIovannangeli  allo scrittore,  pubblicata dall'UNITAA' il 22 giugno 2006, suscita immediatamente alcune domande: chi, di preciso, in Israele è favorevole  "all'uccisione dei bambini palestinesi".
E quando Israele avrebbe adottato una politica di questo tipo?
La lettura dell'intervista ne suscita un altra. Israele, cercando di non colpire civili, si difende da un aggressione terroristica, ricorrendo agli omicidi mirati in caso di pericolo imminente.
Quale alternativa propone Shalev? Lasciar  fare ai terroristi sarebbe un'alternativa moralmente soddisfacente?


Ecco il testo (Io israeliano mi oppongo all’uccisione di bimbi palestinesi):

«Mi rifiuto di considerare dei bambini uccisi nel corso di una operazione militare come “effetti collaterali” nella lotta al terrorismo. Se noi israeliani pensassimo questo vorrebbe dire che i terroristi avrebbero cominciato a vincere, perchè sarebbero riusciti a degradare i nostri cuori, rendendoli di pietra, a violentare le nostre coscienze, trascinandoci a loro livello. So bene che la lotta contro terroristi che spesso operano in aree affollate, non è facile. Ma ciò che con la nostra lettera aperta abbiamo inteso dire è che non tutti i mezzi sono legittimi per difendere Israele dai tiri di razzi e dai sanguinosi attacchi suicidi». Meir Shalev, tra i più affermati scrittori israeliani contemporanei, è uno dei 18 intellettuali israeliani che nei giorni scorsi hanno sottoscritto una lettera aperta indirizzata al ministro della Difesa, e leader laburista, Amir Peretz, nella quale denunciano gli attacchi ai civili palestinesi nelle operazioni condotte dall’esercito israeliano. «La lotta al terrorismo - sottolinea Shalev - non può giustificare sempre tutto e tutti. La superiorità di una democrazia sta nel riconoscere i propri errori. E Israele deve mostrarsi anche in questo frangente una grande democrazia».
Cosa c’è alla base della lettera aperta di cui Lei è uno dei promotori?
«Questa lettera per quanto scritta di getto non nasce solo sull’onda dell’emotività e del dolore per ciò che stava avvenendo nella Striscia di Gaza, con i civili uccisi, e tra questi diversi bambini, in operazioni antiterrorismo lanciate dal nostro esercito. Al dolore si è aggiunta la preoccupazione per il rischio di una deriva inaccettabile dell’esercizio del diritto alla difesa. Con questa lettera aperta abbiamo voluto affermare che non tutti i mezzi sono legittimi per difendere Israele dai razzi e dai kamikaze, e che la vita e i diritti di civili disarmati devono essere rispettati. È immorale e politicamente controproducente - abbiamo scritto nella lettera - fare pressione sulla popolazione palestinese e farle subire punizioni collettive come mezzo per combattere il terrorismo».
Ma non sono terroristi anche coloro che sparano razzi contro Sderot?
«Riconoscerli come tali non può in alcun modo mettere tra parentesi il rispetto della vita dei civili palestinesi. Israele è in guerra contro i terroristi ma non ha dichiarato guerra ad un popolo intero. Mi rifiuto di considerare i bambini uccisi a Gaza come dolorosi “effetti collaterali” nella giusta lotta contro i terroristi. Non accetto la logica, perversa, secondo cui il fine (la lotta al terrorismo) giustifica i mezzi, tutti i mezzi per sconfiggere il Nemico».
Nelle scorse settimane, in un altro appello, di cui Lei è stato tra i promotori, rivolto al premier Olmert si chiedeva al Governo di prendere misure a protezione di bambini palestinesi attaccati a colpi di pietre da coloni oltranzisti mentre si recavano a scuola.
«Quell’appello non aveva nulla di politico. Era un obbligo morale, e come tale non era né di destra né di sinistra. Quell’appello nasceva dalla rivolta delle coscienze, almeno di quelle dei suoi firmatari, di fronte al fatto che bambini che volevano andare a scuola erano attaccati brutalmente in quanto palestinesi. Quei bambini non rappresentavano una minaccia, a meno che non si consideri che un palestinese sia in sé una minaccia da estirpare. Ma questa equazione è la morte della ragione, oltre che una abiezione morale».
Molto si discute sulla pace possibile e sulle rinunce che Israele sarebbe disposto a fare per raggiungere una pace nella sicurezza.
«Rinunciare ai territori occupati con la Guerra dei Sei Giorni non è una gentile concessione che Israele fa ai palestinesi, peggio ancora una resa ai terroristi, e neppure è il sacrificio da fare sull’altare di un astratto concetto di giustizia. Restituire quei territori occupati dal 1967 è il prezzo necessario da pagare per salvaguardare il bene più prezioso, uno dei pilastri, assieme all’identità ebraica, su cui si fonda lo Stato d’Israele: la sua essenza democratica».
Si tratta «solo» di un problema territoriale?
«No, si tratta anche di riconoscere vicendevolmente, noi israeliani e i palestinesi, che l’essenza tragica di questo conflitto è che a scontrarsi non è il Bene contro il Male, ma due diritti egualmente fondati, due aspirazioni altrettanto legittime coltivate dai due popoli: la sicurezza per Israele, uno Stato per i palestinesi. La pace non può che nascere dal riconoscimento dei due diritti, e da quel desiderio di normalità che possa trionfare sul sogno nefasto del Grande Israele o della Grande Palestina».

Su questi temi è interessante un confronto con un articolo (L'i ntellighenzia israeliana si è separata dalla gauche) di Anna Momigliano pubblicata dal RIFORMISTA, nel quale si scopre che la cultura letteraria israeliana non è interamente schierata a sinistra, e comunque non necessariamente ne condivide le opinioni in materia di sicurezza, come talora sembrerebbe leggendo L'UNITA'.

Ecco il testo:

 

Così non tutti gli intellettuali israeliani sono contrari tout court ai raid su Gaza, che pure in questi giorni stanno mietendo fior di vittime tra i civili. Servono alcuni distinguo, ci sono le azioni mirate e quelle meno, poi c'è Hamas che merita anch'essa una forte condanna, ha spiegato ieri al Corriere della Sera, Avraham Yehoshua, firma storica della letteratura e dell'attivismo politico a Gerusalemme, che sì e rifiutato di firmare l'appello al ministro della Difesa per la cessazione dei raid. Un no degno di nota, senza dubbio. Eppure non serviva l'eccellente assenza di Yehoshua dalla lista dei firmatari, per rendersi conto che la luna di miele tra la sinistra pacifista e l'intellighenzia, in Israele, è finita da un pezzo. Sono lontani, insomma, in cui figure della portata di Amos Oz, Meir Shalev, David Grossman, Dalia Rabikovitz e lo stesso Yehoshua costituivano un fronte relativamente compatto a favore del processo di pace e contro il fanatismo, che si trattasse di natura nazionalista o religiosa. Durante gli anni di Oslo, l'intellighenzia di sinistra si era schierata compatta a favore degli accordi, diventando elemento essenziale del dibattito politico intorno ai negoziati. Erano gli anni delle manifestazione in piazza, delle strette di mano tra Rabin e Arafat. Erano gli anni d'oro di Shalom Akhshav, la principale organizzazione pacifista israeliana che vanta tra i suoi membri i più illustri studiosi, scrittori e artisti del paese, che non esitarono a formulare un vero e proprio endorsement del governo Rabin. Ma erano anche gli anni che segnarono le più profonde divisioni all'interno della società israeliana: allora era facile dividere il paese in laici e religiosi; in nazionalisti e pacifisti; in buoni e cattivi.

 

 

 

 

 

 Dopo la fine degli anni Novanta, le cose sono cominciate a diventare più complesse. La seconda Intifada ha rimodellato i parametri morali con cui si giudicavano le relazioni tra israeliani e palestinesi. La crisi profonda del laburismo ha obbligato i suoi sostenitori all'autocritica. Infine, e stata la “svolta" del 2004 di Ariel Sharon, unita a un certo immobilismo da parte laburista, a spingere molti anche se non tutti a passare sul fronte opposto nel dibattito tra destra e sinistra. Per farsi un'idea del travagliato divorzio tra la sinistra e i suoi intellettuali, basta ripercorrere l'evoluzione degli schieramenti politi di alcuni scrittori. A cominciare, per esempio, da Amos Oz, forse il più acclamato tra gli scrittori israeliani, padre fondatore di Shalom Akshav che da sempre punta il dito contro le violenze compiute dall'esercito israeliano. Oz fu tra i principali fautori della protesta contro le stragi di Sabra e Chatila, tanto che nella raccolta di saggi politici In terra di Israele incluse un monologo fittizio di Sharon, in cui il generale si autodefinisce «un mostro e un assassino». Molti anni più tardi, lo stesso scrittore avrebbe dato il suo endorsement al piano del ritiro da Gaza, definito il male minore, «pur sempre migliore della situazione attuale». Negli ultimi anni, Oz ha sviluppato una posizione terza dalla dicotomia tra destra e sinistra in Israele: favorevole alla costruzione del muro di separazione, ma contraria agli attacchi mirati; contrario all'occupazione, era però convinto della responsabilità palestinese: nel 2001 scrisse un celebre editoriale in cui attribuì la svolta a destra del suo paese agli errori di Arafat. Poi c'è David Grossman, autore di romanzi intimisti come Vedi alla voce Amore, ma anche di saggi politici come Il Vento giallo, un diario reportage dai Territori occupati che durante la prima Intifada toccò molti nervi scoperti della coscienza israeliana. Come Yehoshua ed altri, poi, Grossman si trasformò in un sostenitore del piano del ritiro da Gaza mentre la sinistra laburista si rifiutava ancora di sostenere il governo conservatore, rimasto in minoranza. Nel 2001 Grossman definiva in un articolo sul Guardian Sharon “un estremista deviato ossessionato dal potere”; pochi mesi fa lo scrittore israeliano parlava di una “potente figura paterna per il nostro paese”.

 

 

 

 

 

 Sotto alcuni aspetti, la metamorfosi politica dell'intellighenzia Israeliana trova un esempio nella nuova generazione di scrittori, rimangono impegnati politicamente distaccandosi però dagli schemi tradizionali della sini stra. Tra questi, si fa notare soprattutto Etgar Keret, classe 1969 e vero astro nascente della letteratura in lingua ebraica. Nelle opere di Keret, la violenza del conflitto mediorientale è rappresentata come una condizione endemica della vita di tutti i giorni. Nessuna denuncia espIicita, solo una narrazione terribilmente realista. A differenza dei suoi predecessori al tempo di Oslo, Keret si è ben guardato dal demonizzare l'altra metà di Israele", quella conservatrice. Nei rarissimi endorsement, Keret ha sempre mantenuto una distanza sibillina dalla politica. Come in un editoriale dello scorso marzo, dedicato a Kadima. “’Pace’, mi disse mio padre, ‘è di questo che il paese ha ragione, la pace di chi è stanco, ed Olmert è la persona adatta per permetterci finalmente di andare a nanna’”, scrive Keret alla vigilia del le elezioni. «Tornando a casa, cominciai a pensare che, per una volta, mio padre aveva ragione. Ma non so se fosse davvero una buona notizia».

 

 


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