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Il Manifesto Rassegna Stampa
21.06.2006 Pregiudizi e ideologia in un reportage da Modi'in Illit
il quotidiano comunista ignora la differenza tra totalitarismo e società libera

Testata: Il Manifesto
Data: 21 giugno 2006
Pagina: 18
Autore: Michelangelo Cocco
Titolo: «Medioevo hi-tech a Modi'in Illit»

Invitiamo i lettori di Informazione Corretta a visitare la città di Modi'in ilit per verificare quanto sia lontana, nella realtà,  dalla descrizione che ne fa Michelangelo Cocco sul MANIFESTO del 21 giugno 2006.
Si tratta di una città abitata da ortodossi come da laici, non di un pezzo di Medioevo ricomparso non si sa come nelll'Israele del ventunesimo secolo, che è quel che vorrebbe farci credere il giornalista del quotidiano comunista. In un articolo che denuncia quasi ad ogni riga il peso dell'ideologia.
Le industrie high tech che,  fornendo lavoro, hanno ovviamente migliorato le condizioni di vita degli ebrei ortodossi, non più dipendenti dall'assistenza statale,  sono viste, secondo una vulgata no-global, come avide sfruttatrici di manodopera a basso costo.
E la religione è vista comunque come una forma di oppressione e di inquadramento totalitario, senza distinguere tra un contesto, come quello israeliano,  nel quale il diritto di lasciare un qualsiasi gruppo è  garantito e difeso dallo Stato (tra l'altro bisogna osservare che le donne haredi che lavorano per permettere ai loro mariti di studiare sarebbero facilitate anche dalla loro indipendenza economica se decidessero di "fare la scelta di Malka, che nella scena finale di «Kadosh» fugge da Mea Sharim, lontano dai trepidanti" come Cocco auspica nella conclusione del suo pezzo) e uno nel quale l'appartenenza alla comunità è obbligatoria e  la defezione punita.
Escludere a priori che una scelta religiosa possa essere libera e soddisfacente, ricondurla comunque a tare mentali o al desiderio di liberarsi dal "peso della scelta" non ha nulla a che vedere con la laicità.
Ha invece a che vedere con un'ideologia antireligiosa di matrice marxista e giacobina non dissimile, nella sua logica come nelle sue ricorrenti conseguenze pratiche, dai più deleteri fanatismi religiosi.
Ecco il testo: 


Il rabbino Yaakov Guterman si considera un pioniere e un benefattore al tempo stesso. Il sindaco della colonia israeliana di Modi'in Illit ha trovato il modo di far convivere le tradizioni degli ebrei ultraortodossi con le leggi di mercato dell'industria hi-tech. Il suo esperimento funziona così bene che nell'insediamento è nato un ricco e fiorente polo della produzione immateriale in outsourcing, traino per lo sviluppo impetuoso di questa cittadina di 32.000 abitanti che spera d'essere riconosciuta presto come municipalità.
Centinaia di ragazze tra i venti e i trent'anni, protagoniste assolute di quella che, come recita un cartello al suo ingresso, è «la città haredi del futuro», per otto ore al giorno e un salario medio di circa 3500 shekel (635 euro) al mese digitalizzano documenti o producono software per alcune tra le principali multinazionali del settore. La fatica di queste giovani (la maggior parte delle quali di fazione lituana o chassidica) permette agli uomini di condurre una vita interamente dedicata allo studio della Torah e a una comunità che si professa orgogliosamente anti-moderna di far fronte alla sua cronica crisi economica.
Hanno nomi da ventunesimo secolo le aziende che hanno scoperto un eldorado a due passi dalla palestinese Ramallah: Matrix, Tech-Tav, Image Store, TopTrans, Citybook Services e Tikshuv. La manodopera specializzata è costituita invece da donne che vivono nella stessa dimensione dei loro antenati askenaziti fuggiti dalle persecuzioni di fine ottocento in Europa orientale: nei loro appartamenti sovraffollati non esistono televisori né computer, andare al cinema è vietato. Alla radio ascoltano solo programmi religiosi o notiziari, non guidano l'automobile. Devono evitare in ogni modo di distrarre i maschi, per questo indossano solo gonne lunghe, maglie a collo alto e camicie con maniche che tengono sempre coperto il gomito.
Il pancione sotto la scrivania
Molte di loro nascondono il pancione sotto la scrivania: davanti al computer, incinte anche al settimo, ottavo mese, passano un terzo della propria giornata, poi subito a casa, ad accudire la prole. «È una nostra scelta, nessuno ci ha chiuse in gabbia», assicura Freydie, 24 anni e due figli, arrivata da Elad quattro mesi fa, attratta dai 3.500 shekel della Matrix che le permettono di mantenere la famiglia mentre suo marito passa la giornata al kolel, la parte della yeshiva riservata agli uomini sposati. «Per noi haredim lituani, ancora più che per i chassidici, è così: la donna lavora, mentre l'uomo si dedica allo studio dei testi sacri - racconta Freydie. Quest'azienda mi permette di vivere in accordo con la Torah, in un ambiente unicamente femminile, senza alcun contatto con i maschi». Se per gli ultraortodossi chassidici l'admor, un rabbino che ha la funzione essenziale di mediare tra Dio e l'uomo, riveste un ruolo essenziale, per i lituani il centro della vita è costituito dalle istituzioni religiose: l'heder, dai tre anni all'adolescenza, la yeshiva, per uomini celibi, il kolel per quelli sposati.
Mentre operai cinesi e filippini rifiniscono le stanze destinate ad accogliere i novi uffici, Chavie, che alla Matrix è responsabile del personale, racconta che «un anno e mezzo fa, abbiamo iniziato con venti programmatrici, ora ne abbiamo 150». Anche per lei «è essenziale che le donne lavorino in ambienti omogenei, a due passi da casa». La ditta, che prevede di arrivare a mille dipendenti entro la fine del 2006, produce programmi ed effettua controlli di qualità sui software per Motorola, Sap, Formula telecom solutions e altri colossi dell'elettronica. «Non c'è nessun problema a far lavorare donne incinte - assicura Chavie. I nostri clienti lo sanno e la legge dà diritto alla maternità a sei settimane dal parto».
Delle 6.500 famiglie di Modi'in Illit, 1.500 vanno avanti grazie al sostegno del ministero del welfare e il 70% degli uomini non lavora. Qui vivono solo ultraortodossi, quasi metà haredim della West Bank (70.000 persone, su una comunità israeliana di circa 200.000). Tuttavia, anche se i finanziamenti statali alla comunità haredi sono in costante diminuzione, Modi'in Illit cresce a un ritmo del 13% annuo: il 24% delle famiglie ha più di quattro bambini, il 18% più di sei, 40 nuovi nati ogni settimana le assicurano il primo posto in Israele per incremento naturale. «È come aprire una nuova classe ogni sette giorni», racconta orgoglioso Guterman nel suo ufficio. I peot corti tipici dei lituani raccolti dietro alle orecchie, kippà e abito scuro, il sindaco siede soddisfatto dietro alla sua scrivania, il giorno dopo aver ricevuto una visita del presidente della confindustria. Alle sue spalle ha le mappe che illustrano i piani d'espansione dell'insediamento, nato nel 1996, con la sua parte orientale trasformata in un gigantesco cantiere dove cinque imprese edili stanno costruire tre nuovi quartieri, Ne'ot Hapisgah, Nachalat Cheftsibah e Green Park. «Grazie alle mie pressioni sul governo sono riuscito a ottenere che alle industrie che investono qui siano garantiti 1.000 shekel al mese per ogni assunta, per i prossimi cinque anni. In cambio gli imprenditori s'impegnano a corrispondere una paga maggiorata del 5% rispetto al salario minimo». Assieme alla posizione strategica dell'abitato - a metà strada tra Gerusalemme e Bnei Brak, i due centri principali degli ultraortodossi - l'iniziativa di Guterman ha fatto decollare Modi'in Illit, dove «Con l'aiuto di Dio, nel 2020 arriveremo a 150.000 abitanti».
Per Dror Etkes, che per l'organizzazione pacifista Peace Now si occupa del monitoraggio delle colonie israeliane nei Territori palestinesi occupati, «è probabile che dopo le elezioni politiche del 28 marzo prossimo Modi'in Illit sia dichiarata dal governo consiglio municipale, come finora è già avvenuto per le colonie di Ariel, Ma'aleh Adumim e Beitar Illit». «Attrarre investimenti in una città sarebbe più facile» conferma Guterman, che sta trattando per portare nel suo consiglio locale (status al quale è fermo attualmente) anche la Radix, leader per la sicurezza nel web. Secondo Etkes però l'ingrandimento frenetico di questo insediamento (tre chilometri all'interno della Cisgiordania) lancia un messaggio negativo alla controparte: noi israeliani facciamo ciò che vogliamo. «In qualsiasi scenario futuro non la cederanno mai ai palestinesi - aggiunge Etkes - ma bisogna capire che l'espansione di questa colonia, un atto illegale perché viola i principi della Road map per la pace accettati dallo Stato ebraico, contribuisce a rendere impossibile il dialogo con gli arabi».
Da Pretoria ai Territori occupati
Gideon ha 28 anni e già cinque bambini. È immigrato in Israele da Pretoria, Sudafrica, perché «lì dopo la fine dell'apartheid c'era troppa violenza e volevamo arrivare nella terra del sionismo». Rappresenta quel 30% di maschi di Modi'in Illit che lavora: «Qui c'è più ricerca filosofica, ogni nostra azione è svolta in accordo con i principi della Torah - dice. Inoltre quattro stanze le puoi acquistare per 110.000 dollari, la metà che a Gerusalemme e Bnei Brak». I palestinesi a poche centinaia di metri da qui, oltre il muro che ingloberà Modi'in Illit in territorio israeliano? «Fanno esplodere i propri bambini, è qualcosa di animalesco, non credo che ci potrà essere convivenza tra ebrei e musulmani, perché quei pochi arabi buoni non riusciranno mai a fermare i cattivi», sostiene Gideon. Internet? «Siamo assolutamente contrari, ti si apre un mondo, la metà del quale è negativo».
«Parte dell'attrazione esercitata dal modo di vita ultraortodosso consiste nella chiarezza assoluta su ciò che è lecito e ciò che è proibito», spiega Avishai Margalit, professore di Filosofia all'Università ebraica di Gerusalemme. Per l'autore della raccolta di saggi intitolata «Volti d'Israele» queste persone «vengono almeno parzialmente liberate dalla necessità di prendere certe decisioni che per il resto di noi sono fonte di ansia. Le unioni sono in larga misura combinate da intermediari matrimoniali. Perfino decisioni come farsi un'operazione o scegliere il dottore vengono delegate al rabbino». Margalit ricorda che nella storia millenaria del popolo ebraico non c'è mai stata una tale quantità di gente che dedica la sua vita interamente allo studio dei testi sacri. «Gli ultraortodossi possono essere visti come una reazione alla modernità - ragiona il docente nel suo studio del Van Leer Institute di Gerusalemme. Quella degli ebrei era una delle corporazioni medioevali; con l'inizio dell'età moderna e l'urbanizzazione hanno temuto che questo processo potesse erodere il loro stile di vita ebraico. Di lì la necessità di alzare come un muro che proteggesse la loro purezza». L'ideologo dei moderni ultraortodossi è Hazon Ish (l'uomo visionario), un lituano morto nel 1953 che durante la guerra del 1948 fu l'artefice di un incredibile revival dell'ultraortodossia. Dopo decenni in cui il potere dei circa 250.000 trepidanti (traduzione di haredim, dal verso del profeta Isaia: «Ascoltate la parola del Signore, voi che trepidate alla sua parola»), attraverso i loro rappresentanti alla Knesset, il parlamento, è aumentato costantemente in Israele, l'ultimo governo Sharon ne ha ridotto il peso escludendo i loro partiti dall'esecutivo e tagliando gli stanziamenti. «Lo sviluppo di Modi'in Illit - continua Margalit - può essere letto proprio come una risposta alla profonda crisi economica che la comunità haredi ha attraversato negli ultimi tre anni».
Negli uffici della Image Store i documenti cartacei e i microfilm da trasformare in files scorrono veloci sugli schermi al plasma delle impiegate. Il ticchettio simultaneo di migliaia di tasti produce un brusio di fondo interrotto solo dal responsabile del personale, che rimprovera le ragazze quando si distraggono per fare due chiacchiere da una postazione all'altra. Mikal ha 26 anni e tre bimbi, è arrivata cinque anni fa da Rehovot: «Qui ci permettono di lavorare in maniera religiosa - dice. Non ci sentiremmo sicure in una società hi-tech con un ambiente laico». Tova, 21 anni, si è trasferita da Gerusalemme attratta dalle possibilità di lavoro di Modi'in Illit: «Questo posto ci da' la possibilità di discutere tra noi soltanto di questioni religiose e dell'educazione dei figli, per questo ci sentiamo a nostro agio» dice prima di ammettere che «otto ore sono troppe e quando avrò dei figli cercherò un'altra opportunità».
Ephraim Reich è il general manager della Image Store, che ha aperto i suoi uffici a metà del 2005 e ha tra i suoi clienti principali il National Insurance Institute, l'Israel Land Authority e l'Archivio di Stato. «Facciamo conversione di tutti i tipi di media in files digitali, in questo campo siamo i numero uno in Medio Oriente e tra i primi nel mondo. Lavoriamo anche su commissione di banche statunitensi e canadesi». A breve Reich prevede di assumere, a tempo pieno, altre cinquanta ragazze. Un fatturato di 40milioni di shekel nel 2005 e una crescita del 20% l'anno gli permettono di essere molto ottimista. «Facciamo lavorare tutte le ragazze incinte in un ambiente sano - dichiara il dirigente. A quelle che hanno partorito da poco diamo il permesso di tornare a casa per qualche minuto per allattare». «Stiamo preparando una nursery» dice prima di mostrare lo stanzino di due metri per quattro dove per ora le impiegare s'arrangiano ad allattare.
Il professor Margalit ricorda che «quando da giovane vivevo nei pressi di Mea Sharim, il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, gli haredim avevano una loro economia, povera ma vitale: erano carpentieri, artigiani, avevano un piccolissimo mercato». Dagli anni '60 fino ad oggi però hanno solo studiato. «La mancanza di produttività tra gli ebrei, un fenomeno che il movimento sionista aveva sempre aspramente criticato, divenne nella comunità haredi una drammatica realtà» conclude il docente.
«Il compito di una figlia d'Israele è mettere al mondo dei figli, mettere al mondo degli ebrei e permettere al marito di studiare. La donna partecipa con saggezza al compimento della Torah: il suo compito è tenere pulita la casa, preparare i pasti e soprattutto allevare i propri figli», dice il rabbino a Meir, il protagonista di «Kadosh», il film del regista Amos Gitai sulle comunità ultraortodosse.
Il compito delle figlie d'Israele
A Modi'in Illit una rigida organizzazione sociale e religiosa sta trasformando le donne da angeli del focolare ad angeli della tastiera. Le ragazze della Image Store, prima di essere assunte vengono mandate a fare un mese di pratica a Petah Tikva, città industriale ben lontana dall'omogeneità di Modi'in Illit e a due passi dalla peccaminosa Tel Aviv. Freydie, della Matrix, confessa che «una volta ho aperto accidentalmente una pagina web e, ti posso assicurare, subito dopo mi sono sentita tanto a disagio». Tova, Mikal, Chavie e le altre per ora possono utilizzano solo l'e-mail, per comunicare con i clienti. Spostando parte della produzione da altri poli tecnologici dello Stato ebraico a Modi'in Illit gli industriali stanno sostenendo costi molto più bassi, al punto da permettere alle case che hanno commissionato il lavoro in outsoucing di risparmiare fino al 50% sul prodotto finale.
Ma per quanto tempo il sogno del rabbino Guterman di avere una comunità haredi sempre più grande e più pura riuscirà a stare al passo con la frenesia hi-tech di Modi'in Illit? Quante ragazze, dopo il contatto con l'altro mondo, quello dell'azienda e quello di Internet, faranno la scelta di Malka, che nella scena finale di «Kadosh» fugge da Mea Sharim, lontano dai trepidanti?

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