Pasdaran di Ahmadinejad sul Golan ? il punto sulla minaccia islamica, l'opinione di Federico Steinhaus
Testata: Informazione Corretta Data: 21 giugno 2006 Pagina: 0 Autore: Federico Steinhaus Titolo: «Pasdaran di Ahmadinejad sul Golan ?»
Quanto succede da un paio di mesi a questa parte in relazione alla minaccia islamica merita qualche approfondimento, che questa scheda riassuntiva potrà forse facilitare.
La minaccia iraniana di dotarsi di armi atomiche è stata gestita in maniera approssimativa dalle potenze occidentali. Nei media essa è stata regolarmente associata alle ripetute negazioni della Shoah proclamate dal presidente iraniano, quasi a voler stabilire un nesso fra due indicatori profondamente diversi. Il risultato è che si accredita l’impressione che sia in atto, per motivi di varia natura, un tentativo di trasformare una minaccia planetaria in un qualcosa di circoscritto: è Israele che l’Iran vuole annientare, è con gli ebrei che se
la prendono Ahmadinejad ed i suoi seguaci: vediamo dunque di rabbonirlo, ma alla fin fine cosa ce ne importa?
Negazione della Shoah ed ambizioni nucleari, attraverso il loro regolare affiancamento nei messaggi trasmessi dai media, non si rafforzano a vicenda come pure potrebbe sembrare, ma anzi trasmettono la percezione di un pazzoide da non prendere troppo sul serio. Se Ahmadinejad si “limitasse” a negare la Shoah ed a voler distruggere Israele senza pretendere anche di avere la bomba atomica le reazioni del mondo sarebbero certamente molto meno aspre di quanto non siano oggi.
Purtroppo non passerà molto tempo prima di avere a portata di mano una verifica di quanto stiamo semplicemente ipotizzando. Lo scorso 15 giugno il ministro della Difesa iraniano generale Mustafa Najjar ed il ministro della Difesa siriano generale Hassan Turkmani hanno firmato a Teheran un trattato militare.Gli analisti di “Debka” ed i loro colleghi pakistani e mediorientali ritengono che esso preveda l’installazione al confine israelo-siriano di capisaldi iraniani gestiti dalle Guardie Rivoluzionarie; lo confermerebbe quanto ha dichiarato il ministro iraniano dopo la firma: “Noi abbiamo un fronte comune contro le minacce israeliane”. Entrambi gli stati sostengono politicamente ed economicamente gli Hezbollah libanesi, Hamas e
la Jihad Islamica palestinesi, e dal Golan gli iraniani avrebbero la capacità di sorvegliare ogni movimento militare americano nel Mediterraneo orientale, oltre che naturalmente di monitorare quelli israeliani.
La minaccia globale dell’estremismo islamico e della sua componente terroristica non è più da tempo concentrata su un unico scenario geopolitico od in un’ unica regione della terra. Sconfitto in Afghanistan, in difficoltà in Pakistan, indebolito in Iraq, con una perdita di consensi e di coperture in quelle nazioni, esso ha trasferito le sue potenzialità nel Corno d’Africa, che costituirà un trampolino ideale verso il settentrione di quel continente e verso l’Europa.
Siamo noi europei l’anello debole che ci rende incapaci di difenderci con efficacia dalle mire aggressive e dalle strategie di infiltrazione di questa componente distruttiva dell’Islam. Se sapessimo leggere correttamente i suoi messaggi, se non preferissimo voltarci altrove per sfuggire alle nostre responsabilità di oggi e di domani, se le nostre istituzioni democratiche non collocassero sempre e comunque le sacrosante libertà individuali – il nostro patrimonio di civiltà più prezioso – al di sopra di qualunque emergenza, se tutto ciò non fosse avremmo la percezione di un pericolo che fra non molto potrebbe diventare troppo immanente e pervasivo per essere individuato circoscritto e fermato.
Forse hanno ragione i filosofi ed i sociologi che imputano al nostro storico senso di superiorità ed al nostro speculare senso di colpa per un passato coloniale l’ incapacità di valutare correttamente l’instabilità degli equilibri fra popoli ed idee così profondamente scossi alle radici.
A torto od a ragione uno dei centri d’attenzione in relazione al concetto stesso di minaccia islamica è storicamente, oramai da mezzo secolo, il conflitto fra Israele ed il mondo arabo, quello palestinese in particolare.
Esso va pertanto inquadrato non solo in quanto succede in Palestina ma nel più complesso quadro dello scontro globale cui si è fatto cenno. Una analisi corretta da un punto di vista politologico deve pertanto suddividere il problema fra le sue due componenti più visibili, quella interna al mondo palestinese ed arabo e quella dei rapporti con Israele.
All’interno dell’Autorità Palestinese è in atto da qualche settimana uno scontro durissimo fra Hamas e Fatah, che personificano il fanatismo religioso e l’anima laica che fino ad ora avevano convissuto senza traumi. Hamas ha conquistato il potere, e Fatah tenta – con la violenza – di riprendersi quanto reputa gli sia stato strappato ingiustamente. L’ombra ingombrante di Arafat e del tesoro che ha rubato al suo popolo (ora custodito chissà dove dalla vedova Suha) incombono sul futuro di quel popolo privandolo di risorse economiche enormi e della capacità di autogestirsi secondo parametri laicamente democratici.
La consegna unilaterale all’Autorità Palestinese di gran parte dei territori rivendicati ed il contestuale stabilimento di una potestà governativa palestinese su di essi costituirebbero le due facce di una stessa medaglia – quella della soluzione definitiva e concordata del conflitto - se non fosse che l’Autorità Palestinese è un insieme di fazioni in lotta tribale. Si contestano i possibili futuri confini, ma si oblitera l’essenziale, che da parte palestinese cioè manca del tutto non solo la volontà ma anche la capacità di affrontare con spirito costruttivo la convivenza con Israele.
La strage progettata ed attuata negli anni dell’ intifada è stata bloccata dalla costruzione del cosiddetto “muro”, ma non così è stato per la struttura educativa che ne esalta, ora come ai tempi di Arafat, le finalità.
Creare in serie i terroristi suicidi richiede un progetto ed un meccanismo complessi ed articolati, che sono tuttora attivi. Non più tardi del 4 marzo 2006 ad esempio il quotidiano ufficiale dell’Autorità Palestinese Al Hayat Al Jadida ha scritto che “sembra che i fiumi di sangue nelle nostre città, villaggi e campi profughi non soddisfino la sete dei politici e militari israeliani avidi del sangue palestinese”. La televisione palestinese da settimane manda in onda quotidianamente videoclips con attori travestiti da prigionieri palestinesi, che vengono brutalmente torturati da israeliani feroci. Di tanto in tanto la stampa palestinese sparge notizie su tentativi israeliani di avvelenare la popolazione (l’ultima è stata quella che voleva milioni di polli affetti da aviaria trasportati e sepolti nei dintorni di villaggi e città palestinesi). Le città israeliane vengono cantate da poeti ed autori di canzoni come palestinesi, ed in particolare in concomitanza con l’anniversario della nascita di Israele scorrono sugli schermi televisivi filmati in cui la cartina di Israele viene lentamente sostituita da quella che raffigura una Palestina tutta islamica (come del resto avviene su bandiere e stemmi palestinesi, nei siti ufficiali della Lega Araba e di paesi arabi). Il 10 aprile è stata celebrata la Giornata dei Bambini Palestinesi, e nel corso di un programma televisivo trasmesso in diretta una bambina ha recitato una poesia: “La nostra morte è come se fosse vita, la mia patria è la tomba degli invasori”. In prima fila ad applaudire calorosamente era seduto il moderato ed affidabile Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Il quale, lo scorso 23 maggio, ha affermato alla televisione palestinese (parlando in arabo agli arabi, non in inglese ai creduloni) che il tentativo dei prigionieri palestinesi detenuti per terrorismo nelle carceri israeliane di trovare un punto di accordo fra Hamas e Fatah “prova che questi nostri eroi, che sono stati condannati a decine di ergastoli, sentono che la patria è in pericolo”.
Riassumendo il senso di una miriade di possibili citazioni tutte simili fra loro e spesso collegate a concetti apertamente antisemiti, l’Autorità Palestinese continua a negare legittimità all’esistenza di Israele e si oppone (parlando in arabo agli arabi) al suo diritto ad esistere. Per settimane prima e dopo lo scorso 15 maggio, anniversario della creazione di Israele, la televisione palestinese ha trasmesso un videoclip che mostrava una vecchia disperata sullo sfondo della scritta “Palestina - la terra dei miei avi: ANDATEVENE! I media palestinesi sono sotto il diretto controllo del presidente Abu Mazen, non di Hamas. Questo è il terreno di coltura dei prossimi terroristi suicidi, che ora sono ancora dei bambini.
I tre momenti in cui è stata suddiviso questo breve abbozzo di analisi si legano fra loro ed hanno molti elementi in comune. Se è vero che la conoscenza e la comprensione dei dati oggettivi sono alla base di ogni elaborazione creativa che miri a modellare il futuro dobbiamo una volta di più sottolineare quanto sia essenziale conoscere e capire questo intreccio e le strutture culturali sulle quali si basa, per far prevalere la nostra volontà di pace e libertà.
Non siamo dinanzi alla lotta fra il Bene ed il Male, come qualcuno asserisce, ma più banalmente a fenomeni di fanatismo falsamente religioso che si sposano ad ambizioni di predominio e di conquista, ai quali il mondo occidentale si oppone nel nome di princìpi e valori che costituiscono le sue fondamenta storiche ed etiche. Il nostro idealismo non scalfisce questo nemico, la nostra concezione della libertà e della dignità gli forniscono alibi e strumenti, la sua cultura, come ammonisce Bernard Lewis, è impenetrabile dalla nostra. Ogni nostro cedimento lo rafforza e gli dà la certezza di essere nel giusto. Solamente un mondo occidentale unito e concorde potrà prevalere, e nel frattempo ogni mossa su questa scacchiera costituirà un banco di prova determinante.
(Citazioni e dati sono elaborati da “Debka”, “MEMRI” e “PMW”)