Costruzione di confini o necessità di sicurezza? equivoci sulla barriera di sicurezza israeliana
Testata: La Stampa Data: 20 giugno 2006 Pagina: 25 Autore: Marco Belpoliti Titolo: «A muro duro»
Fragili confini tra il mondo ricco e quello povero, parte di un processo ideologico e artificioso di costruzione delle identità nazionali. Come la barriera antimmigrazione tra Stati Uniti e Messico e la barriera difensiva israeliana, paragonata anche al muro di Berlino. Almeno a giudicare dalla recensione di Marco Belpoliti pubblicata da La STAMPA del 20 giugno 2006, vi è ben poco discernimento nel libro di Gian Primo Cella "Tracciare confini", edito dal Mulino, che accomuna astrattamente fenomeni diversi, senza tenete conto, nel caso di Israele, delle eccezionali necessità di sicurezza che hanno reso necessaria la barriera. Scorretto il testo del trafiletto "Israele si chiude ai kamikaze" (titolo assurdo, che utilizza in forma riflessiva un verbo ,"chiudere", utilizzato normalmente, a proposito di nazioni, in riferimento a ben altri fenomeni: il commercio internazionale, la cultura, il progresso... ) nel quale la barriera è descritta come interamente in muratura. In realtà per la maggior parte del tracciato è una recinzione metallica dotata di sensori eletronici. Ecco il testo:
L’ATTENZIONE che oggi poniamo al tempo, e al suo uso, ci fa spesso dimenticare l'importanza che riveste lo spazio. A differenza del tempo lo spazio non è comprimibile, manipolabile o alterabile usufruendo, come spesso facciamo, delle tecnologie informatiche. Lo spazio pone una secca alternativa: se siamo qui non possiamo essere là. È il grande vettore della storia, l'elemento che determina il destino degli individui e delle collettività. «Ogni grande trasformazione storica» ha ribadito il giurista Carl Schmitt, «comporta quasi sempre un mutamento dell'immagine dello spazio» (Terra e mare, Adelphi). Lo spazio non è qualcosa di lontano o di astratto, bensì il bene primario di cui disponiamo e di cui ogni giorno fa esperienza il nostro corpo. Georg Simmel, uno dei fondatori della sociologia moderna, ha scritto che «lo spazio è soltanto un'attività dell'anima», sottolineando con questo l'importanza che ha per ciascuno di noi. In questa definizione i confini - tra io e tu, tra noi e gli altri - appaiono decisivi: i confini che separano dall'esterno rendono unito quello che è racchiuso nell'interno. Il primo confine che sperimentiamo è la pelle, intercapedine che separa il nostro corpo dal mondo, cornice inalienabile, ma anche porosa, del nostro «Io». Anche le società possiedono una pelle, un involucro senza il quale non potrebbero neppure esistere. Al giovane Bruce Chatwin che lo va a trovare per una conversazione, il vecchio Konrad Lorenz, padre dell'etologia, spiega l'importanza del proprio territorio. Il suo è il giardino di Altenberg in cui sta lavorando: anche fare un regalo, dice, significa affermare il proprio territorio, ma la tempo stesso comunica la volontà di non essere una minaccia per l'altro. Noi «non facciamo altro che stabilire delle frontiere». I confini, scrive Gian Primo Cella in un libro molto interessante e utile per leggere il contemporaneo, Tracciare confini (il Mulino, pp. 238, e15), contribuiscono in modo decisivo a riconoscere la realtà e anche a rendere utilizzabili i modelli della mente. Certo, i confini sono anche «qualcosa» che esiste, fisicamente reale, eppure la loro creazione non è un puro atto fisico, ma necessitano di simboli e gesti rituali precisi. Il confine è radicato nella terra, ha scritto Piero Zanini (Significati del confine, Bruno Mondadori), e il significato stesso della parola in molte lingue indoeuropee fa riferimento al solco tracciato dall'aratro, dalla traccia lasciata dal vomere, chiusa su se stessa e ripetuta in sensi diversi per limitare la sua forma. Lo spazio della città nasce nel mondo latino in questo modo, e il confine tra dentro e fuori, indicato dagli dèi, è tracciato dal sacerdote, a cui spetta il nome di Rex, ovvero colui che domina la regula, il rectus. I confini sono rassicuranti per chi è dentro ma anche per chi sta fuori. Negli ultimi cinquant'anni abbiamo conosciuto almeno tre confini «duri»: il Muro di Berlino, il Muro in costruzione tra Israele e la Palestina e la «tortilla curtain» che per 100 chilometri divide Messico e Stati Uniti. Sono tre esempi di «linee» senza sacralità, scrive Cella, frontiere di difficile conservazione, dure e fragili al tempo stesso. Le identità nazionali sono costruite attraverso un processo continuo di costruzione della dialettica «amico» e «nemico», mediante un'estensione della logica della distinzione. È l'esperienza soggettiva della differenza, come la chiama l'antropologo Marshal Sahlins, che crea le nazioni; in questa logica il confine serve a distinguere il sé collettivo e la sua implicita negazione, l'altro. Mentre in Europa negli ultimi decenni sono andati diminuendo le frontiere (se il confine è una «linea», la frontiera si presenta come una «fascia», dunque come qualcosa di più instabile), paradossalmente sono aumentati i confini interni agli Stati. Abbiamo infatti assistito a una ripresa del localismo e ancor di più del secessionismo che hanno trasformato conflitti di interesse in conflitti di identità. Su questi temi il libro di Cella aiuta a comprendere ciò che è accaduto: «nel vuoto creato dalla scomparsa dei grandi sistemi ideologici, come tali sovraindividuali e unificanti, formazioni politiche e leader hanno ritoccato i confini invisibili che dividevano privato e pubblico, lavoro protetto e lavoro precario,regolamentazione e deregolamentazione dei mercati attraverso la ridefinizione dei confini duri e territoriali». I confini infatti non si tracciano più come nel mondo antico mediante l'aratro ma usando il linguaggio. È il potere performativo di creare confini dicendoli, come è accaduto in Italia. A un certo punto, all'inizio degli anni Ottanta, si è palesata la Padania. Ma dove erano i suoi confini? A Nord le Alpi. E le valli alpine? Alto Adige, Trentino e Valle d'Aosta appartenevano alla Padania? Probabilmente no, dato che la definizione del territorio era data dalla sua dimensione pianeggiante. E a sud, dov'è il confine? L'Appennino come spartiacque? E la Liguria è a sud o nord? In realtà il vero discrimine geografico nella Penisola non è quello tra Nord e Sud, ma quello tra Est e Ovest. Lo Stivale è molto più inclinato di come appaia in molte delle carte appese nelle aule scolastiche, e si può andare da Nord a Sud nel versante adriatico senza varcare alcuna montagna: da Venezia a Bari non c'è confine di separazione netto, se non il Po, il quale non è però un vero divisore tra Nord e Sud (l'Emilia e la Romagna sono regioni del Sud?). I geografi ci hanno spiegato da tempo che la vera differenza geografica in Italia è quella determinata dai due versanti: l'Adriatico e il Tirreno, anche se è evidente che le culture seguono le quote geografiche, e le differenze tra i paesi collocati sul versante est e quello ovest dell'Apennino non sono mai nette. Il linguaggio politico, lo abbiamo sperimentato anche nelle ultime elezioni, è in grado di stabilire confini tra una parte e l'altra. Il discorso performativo - dire è fare!, ha sostenuto il filosofo J. L. Austin - tende a produrre confini e quindi differenze, sia a livello territoriale sia a livello politico. Pierre Bourdieu sottolinea come i discorsi politici siano decisivi per imporre come legittimi nuove definizioni dei confini, come ci hanno dimostrato in modo tragico le vicende della ex Jugoslavia. Cella, dal canto suo, ci ricorda le vicende del nazionalismo europeo tra Ottocento e Novecento allorché un gruppo di intellettuali creò quasi dal nulla le nazioni europee definendo confini linguistici e storici, tradizioni e identità, che servirono poi alle nascenti borghesie nazionali per generare nuovi stati, dall'Ungheria alla Germania, dalla Romania all'Italia. Il medesimo meccanismo funziona anche all'interno dei singoli Paesi o Stati dove il meccanismo di «distinzione», come lo chiama Bourdieu, è funzionale a distinguere tra «noi» e «loro», tra destra e sinistra. Ma più che la creazione di identità culturali, oggi funziona la logica della tifoseria, forma di fidelizzazione che ha una chiara origine calcistica, così il posto degli intellettuali del passato - linguisti, storici, etnologi - è tenuto da personaggi televisivi, conduttori, presentatori, che con i loro talkshow e i dibattiti alimentano la logica della contrapposizione. L'Italia appare un paese diviso in due, dominato dalla fobia dello schieramento, del conflitto, che se si ammanta di contrapposizioni storiche - guelfi e ghibellini, Bianchi e Neri - lo fa al prezzo di una colpevole amnesia circa l'esistenza di altrettanto antiche «marche» di confine, ovvero di zone di frontiera molto permeabili e con debolissime capacità di distinzione che hanno segnato tutto il medioevo e l'inizio dell'età moderna. In realtà gran parte dei fenomeni sociali sono, scrive all'inizio del libro Cella, caratterizzati dalla continuità, e la stratificazione sociale appare più simile a un pendio di montagna che a una scalinata con pochi e ben delineati gradoni. Le culture e le società sono segnate dalla commistione e dalla contaminazione; tuttavia il potere della parola - amplificata dai mezzi di comunicazione - è così grande che ogni discontinuità o divisione enunciata e reiterata ha buone possibilità di diventare davvero tale. L’Italia oggi divisa in due dopo le elezioni di aprile assomiglia ad Agilulfo, il Cavaliere inesistente di Calvino: un’armatura vuota che cammina, ma che continua ad avere enormi problemi nel distinguersi dalla realtà esterna. L'identità della contrappostone nasconde un vuoto. Per invertire la rotta, ci ammonisce Cella, bisogna inventare nuove metafore spaziali.
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