Il sangue della Shoah – Piotr Rawicz Casa Editrice: Giuntina
“Forgiato in un metallo scuro, magrissimo e dritto”, il Testimone siede a disagio in un caffè di Boulevard Montparnasse. E racconta, socchiudendo appena le “palpebre oblique, eccezionalmente oblique”. A raccogliere le sue parole vi è il silenzio, a tratti infastidito, del Redattore. A lui spetterà poi il compito d’imbastire il libro, cucendo tortuosi labirinti di tragedia assieme a frammenti d’inattuale elegia. Pubblicato nel 1961 in Francia, e finora mai tradotto in italiano, “Il sangue del cielo” di Piotr Rawicz è un riuscito esperimento narrativo, che mescola la crudezza di un’autobiografia attraverso la Shoah ai toni del romanzo decostruttivista. Quando apparve, la critica lo proclamò subito capolavoro espressivo, esercizio provocatorio al crocevia tra invenzione surreale e ricordo impietoso. Rawicz era nato nel 1919 a Leopoli, in Ucraina, e aveva attraversato l’ordalia della persecuzione tedesca. Catturato dai nazisti nel 1942 e torturato, era riuscito a nascondere la propria origine ebraica ed era così stato internato ad Auschwitz “solo”per motivi politici, come nazionalista ucraino. Alla fine del conflitto era giunto a Parigi assieme alla moglie e lì – nel suo francese perfetto ma straniato – aveva rielaborato la propria epopea negativa, scrivendo innanzitutto come reazione alla “solitudine crudele” della capitale francese, e per guarire almeno in parte dalla malattia dello sradicamento. “Il sangue del cielo”descrive le fasi finali della liquidazione di un ghetto dell’Europa orientale e poi la fuga di due amanti attraverso i territori occupati dai nazisti. I tedeschi non sono quasi mai inquadrati direttamente, ma le loro azioni appaiono di riflesso nel tracollo delle vittime, della natura e degli stessi paesaggi urbani, che sembrano accartocciarsi sotto il peso della catastrofe. Questo senso panico del lutto è espresso con frasi di ritmo diseguale, impastate d’invenzioni linguistiche, di poesie, e di una fatale attrazione per le metafore di disfacimento e decomposizione. Pur nel sovraccarico di allegorie, Rawicz riesce a giocare abilmente con le pretese di un’arte dello scrivere che vorrebbe mettere ordine nello scandalo di quanto accaduto. Si rifugia così nell’antico galateo di una civiltà ormai in frantumi, in cui i protagonisti si muovono come comparse in un teatro senza copione. Non vi è più alcun Drammaturgo in cielo, giacchè nell’universo rappresentato da Rawicz, Dio stesso si schianta nella rovina, e anche la voce narrante può solo “coprire, annullare” quest’assenza, con parole”che brulicano come insetti neri”. Eppure il libro è attraversato da un’eccentrica forma di misticismo, ispirato alle letture orientalistiche dell’autore, che fu anche esperto sanscritista. Così l’elenco delle afflizioni patite dai protagonisti ebrei si trasforma quasi in un “catalogo dei vuoti” di tono induista, una sorta di Upanishad della Shoah che enuncia il cordoglio del reale.
Giulio Busi Il Sole 24 Ore |