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Ebrei senza denaro – Michael Gold Casa Editrice Baldini Castaldi Dalai “Un bicchiere di cream soda”. Quando il vecchio Reb Samuel, “santo e ombrellaio”, gli chiede che cosa si aspetta dal Messia,il piccolo Mikey non ha dubbi. Nell’estate torrida di New York, l’età messianica comincerà per lui con una bevanda ghiacciata. Di simili cortocircuiti tra mondo infantile e smisurata eredità storica vive “Ebrei senza denaro” di Michael Gold. Uscito negli Stati Uniti nel 1930 e subito tradotto in italiano, il libro fu un bestseller, un simbolo della crisi economica e morale dei primi anni Trenta. Ambientato nel Lower East Side di Manhattan tra “caseggiati guarniti di scale di sicurezza, lenzuola e facce”, il romanzo appariva con straordinario tempismo per celebrare la fine del primo sogno americano, dopo il crollo finanziario del 1929. E’ un’epica negativa, impastata con nostalgie dell’Europa perduta e miserie quotidiane di un nuovo mondo impietoso e ingiusto. L’educazione al dolore del piccolo protagonista si compie in un microcosmo d’immigrati ebrei, stipati in uno squallido ghetto senza mura: magnaccia, giocatori d’azzardo, ubriaconi sfaccendati, robivecchi e soprattutto sciami di prostitute. Nell’”urbe pietrificata, tutta sagome geometriche” e lungo “strade di morta lava” s’addensano i ritratti degli sconfitti, dalle sgualdrine che ostentano “milioni di dollari di diamanti falsi sulle dita grasse”, ai gangster crudeli che s’inteneriscono solo parlando della mamma, a rabbini “ignoranti come topi”, dalle cui barbe nere emana “un vento sciroccoso di mille cipolle”. Il giudaismo è un vincolo naturale, ma ormai privo di connotati positivi. E’ il marchio che tiene assieme questi diseredati e li distingue dagli altri paria di New York, dagl’italiani e dagl’irlandesi con cui va conteso ogni scampolo di speranza, in una lotta acrimoniosa per la sopravvivenza. Il tono generale del racconto di Gold è fortemente ideologico e corrisponde a una requisitoria contro il capitalismo americano. Ma i colori della prosa ricordano quelli sovraccarichi della narrazione yiddish, e si dispiegano soprattutto nei profili del padre e della madre.Il personaggio maschile è quello più debole: un sognatore,che s’illude di divenire un self-made man di successo. L’unico talento di questo imbianchino mal pagato e poi triste venditore ambulante di banane è quello d’intessere lunghissimi racconti fantastici per gli amici, in una sorta di terapia verbale contro una vita di fallimenti. Ben diversa la madre, vero centro positivo del libro, dotata di misteriosa forza di solidarietà,che la trasforma in una protettrice degli afflitti.In questa idealizzazione della figura materna Gold declina lo stereotipo della yiddish mame con accenti talora un po’ stucchevoli. Quando scrisse il libro, l’autore era già un personaggio di spicco del movimento comunista negli Stati Uniti. Itzok (Isaac) Granich – questo era il suo vero nome –era nato in una famiglia proveniente dall’Ungheria, ed era cresciuto nella Manhattan ebraica. A dodici anni era stato costretto ad abbandonare la scuola per aiutare i genitori con piccoli favori manuali. Quasi subito era giunta la svolta, con l’adesione alle lotte sindacali e l’attività di pubblicista, che avrebbe continuato per oltre un cinquantennio, divenendo uno degli araldi del marxismo negli Stati Uniti. La fede politica di Gold traluce anche in Ebrei senza denaro, ma non soffoca la naturale propensione a raccontarsi. Certo, il sarcasmo con cui viene messa alla berlina la vuota religiosità degli ortodossi risente di un netto rifiuto delle proprie radici e di una recente conversione laica. Eppure questo narrare largamente autobiografico vive proprio di quell’universo autoreferenziale da cui vorrebbe distaccarsi. Come il vecchio Reb Samuel, che interroga Mikey sul Messia, si arrende.infine all’incomprensibilità dell’esistenza, così l’universo ebraico degli immigrati europei guizza nel racconto di Gold, e si spegne dopo aver rinunciato a opporsi al mistero dell’America. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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