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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Michael Gold - Ebrei senza denaro 19/06/2006
Ebrei senza denaro – Michael Gold
Casa Editrice Baldini Castaldi Dalai

“Un bicchiere di cream soda”. Quando il vecchio Reb Samuel, “santo e
ombrellaio”, gli chiede che cosa si aspetta dal Messia,il piccolo Mikey non
ha dubbi. Nell’estate torrida di New York, l’età messianica comincerà per
lui con una bevanda ghiacciata.
Di simili cortocircuiti tra mondo infantile e smisurata eredità storica
vive “Ebrei senza denaro” di Michael Gold. Uscito negli Stati Uniti nel
1930 e subito tradotto in italiano, il libro fu un bestseller, un simbolo
della crisi economica e morale dei primi anni Trenta. Ambientato nel Lower
East Side di Manhattan tra “caseggiati guarniti di scale di sicurezza,
lenzuola e facce”, il romanzo appariva con straordinario tempismo per
celebrare la fine del primo sogno americano, dopo il crollo finanziario del
1929.
E’ un’epica negativa, impastata con nostalgie dell’Europa perduta e miserie
quotidiane di un nuovo mondo impietoso e ingiusto. L’educazione al dolore
del piccolo protagonista si compie in un microcosmo d’immigrati ebrei,
stipati in uno squallido ghetto senza mura: magnaccia, giocatori d’azzardo,
ubriaconi sfaccendati, robivecchi e soprattutto sciami di prostitute.
Nell’”urbe pietrificata, tutta sagome geometriche” e lungo “strade di morta
lava” s’addensano i ritratti degli sconfitti, dalle sgualdrine che
ostentano “milioni di dollari di diamanti falsi sulle dita grasse”, ai
gangster crudeli che s’inteneriscono solo parlando della mamma, a rabbini
“ignoranti come topi”, dalle cui barbe nere emana “un vento sciroccoso di
mille cipolle”.
Il giudaismo è un vincolo naturale, ma ormai privo di connotati positivi.
E’ il marchio che tiene assieme questi diseredati e li distingue dagli
altri paria di New York, dagl’italiani e dagl’irlandesi con cui va conteso
ogni scampolo di speranza, in una lotta acrimoniosa per la sopravvivenza.
Il tono generale del racconto di Gold è fortemente ideologico e corrisponde
a una requisitoria contro il capitalismo americano. Ma i colori della prosa
ricordano quelli sovraccarichi della narrazione yiddish, e si dispiegano
soprattutto nei profili del padre e della madre.Il personaggio maschile è
quello più debole: un sognatore,che s’illude di divenire un self-made man
di successo. L’unico talento di questo imbianchino mal pagato e poi triste
venditore ambulante di banane è quello d’intessere lunghissimi racconti
fantastici per gli amici, in una sorta di terapia verbale contro una vita
di fallimenti. Ben diversa la madre, vero centro positivo del libro, dotata
di misteriosa forza di solidarietà,che la trasforma in una protettrice
degli afflitti.In questa idealizzazione della figura materna Gold declina
lo stereotipo della yiddish mame con accenti talora un po’ stucchevoli.
Quando scrisse il libro, l’autore era già un personaggio di spicco del
movimento comunista negli Stati Uniti. Itzok (Isaac) Granich – questo era
il suo vero nome –era nato in una famiglia proveniente dall’Ungheria, ed
era cresciuto nella Manhattan ebraica. A dodici anni era stato costretto ad
abbandonare la scuola per aiutare i genitori con piccoli favori manuali.
Quasi subito era giunta la svolta, con l’adesione alle lotte sindacali e
l’attività di pubblicista, che avrebbe continuato per oltre un
cinquantennio, divenendo uno degli araldi del marxismo negli Stati Uniti.
La fede politica di Gold traluce anche in Ebrei senza denaro, ma non
soffoca la naturale propensione a raccontarsi. Certo, il sarcasmo con cui
viene messa alla berlina la vuota religiosità degli ortodossi risente di un
netto rifiuto delle proprie radici e di una recente conversione laica.
Eppure questo narrare largamente autobiografico vive proprio di
quell’universo autoreferenziale da cui vorrebbe distaccarsi. Come il
vecchio Reb Samuel, che interroga Mikey sul Messia, si arrende.infine
all’incomprensibilità dell’esistenza, così l’universo ebraico degli
immigrati europei guizza nel racconto di Gold, e si spegne dopo aver
rinunciato a opporsi al mistero dell’America.


Giulio Busi
Il Sole 24 Ore

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