Il confronto tra Abu Mazen e Hamas una cronaca e l'analisi di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 15 giugno 2006 Pagina: 3 Autore: la redazione - Carlo Panella Titolo: «Abu Mazen (ri)concede una settimana a Hamas, che ha 20 milioni in una valigia. Il Cairo media - Il rais è coraggioso ma non abbastanza armato. Rischia la seconda sconfitta in pochi mesi»
Dal FOGLIO di giovedì 15 giugno 2006, una cronaca sui conflitti interni all'Autorità palestinese:
Alle lotte si alternano i momenti di tentato dialogo. A Gaza e in Cisgiordania la routine è ormai scandita da scontri tra le fazioni armate e successive aperture, spesso fallimentari. Ieri, il Parlamento palestinese, a Ramallah, in Cisgiordania, è stato preso d’assalto da uomini vicini al partito del rais Abu Mazen, Fatah. Hanno minacciato fisicamente i deputati della maggioranza, membri di Hamas. Vogliono i loro salari di funzionari pubblici pagati. A Gaza, un militante del gruppo islamico è stato ucciso da uomini armati di Fatah; un leader delle forze di sicurezza del presidente è stato ferito dai sostenitori del movimento di maggioranza. La stampa internazionale non ha esitato a parlare di guerra civile. Per Kenneth W. Stein, esperto di medio oriente e professore alla Emory university di Atlanta, “la fragmentazione della società palestinese oggi non è né la conseguenza della vittoria di Hamas né il risultato dell’influenza dell’idea di piano di convergenza di Ehud Olmert, ma è ancora una reazione alla morte di Yasser Arafat”. L’ex leader palestinese, ha detto il professore al Foglio, è stato capace di tenere insieme, attraverso la paura e il clientelismo, diversi clan, per 35 anni. “Alla sua morte, il cemento che compattava la costruzione ha iniziato a seccarsi”. Stein non crede che Hamas sia in grado di governare la Cisgiordania, forse soltanto Gaza. “Si potrebbe avere così l’inizio di un’ulteriore divisione” che vedrebbe il governo di Abu Mazen a Ramallah e quello del gruppo islamico sulla Striscia. Soltanto poche ore dopo l’assalto al Parlamento, il primo ministro, Ismail Haniye, ha proposto il ritiro dalle strade di Gaza della sua forza di sicurezza, concordando con il rais la possibilità che i suoi uomini entrino a far parte della polizia, istituzione legata alla presidenza e a Fatah. “Non lasceremo che le differenze politiche degenerino in scontri di strada”, ha detto il premier. Ma la situazione della sicurezza, almeno a Gaza, peggiora da quando Abu Mazen ha fissato al 26 luglio la data di un referendum popolare sul documento dei prigionieri palestinesi, che contiene un implicito riconoscimento d’Israele. Un voto a favore del testo delegitimerebbe il potere di Hamas, la cui piatttaforma nega l’esistenza dello stato ebraico. Il rais, sostenuto indirettamente dalla comunità internazionale, cerca di neutralizzare il risultato del voto di gennaio. Hamas definisce illegale la mossa. La situazione politica è in stallo, la sicurezza è nel caos. Ieri, Abu Mazen e Haniye si sono incontrati prima dell’inizio di un’altra settimana di “dialogo” concessa dal rais per trovare una soluzione senza arrivare al referendum. Un team egiziano, secondo il quotidiano Jerusalem Post, ha suggerito ai due di sostituire l’attuale governo con un esecutivo di “tecnici”, supervisionato da Hamas, in cambio della cancellazione del referendum: secondo Yedioth Ahronoth, il premier di tale governo potrebbe essere un milioniario di Nablus, Munib al Masri. “Si stanno muovendo impercettibilmente non tanto verso una guerra civile – dice Stein – quanto verso agitazioni civili. Non è impossibile che si verifichino scontri fra clan”. La lotta per il potere non è soltanto armata. Abu Mazen avrebbe congelato i conti dei ministri di Hamas, scrive il Jerusalem Post. Ieri, il responsabile degli Esteri, Mahmoud Zahar, ha attraversato il valico di Rafah, confine tra Gaza ed Egitto, con una valigia, dichiarata alle autorità e consegnata ai tesorieri del rais, con 20 milioni di dollari, frutto di un tour in Siria e Iran. Hamas, attraverso il consigliere politico del premier, Ahmad Yusuf, ha fatto sapere di essere pronto a un cessate il fuoco di 50/60 anni se Israele si ritirasse dai confini del 1967. Non si tratta di un accordo “urgente”, dice Yusuf. Un razzo Qassam lanciato da Gaza ha infatti colpito il vicino Negev. Secondo il ministero della Difesa israeliano, nelle ultime ore il gruppo islamico avrebbe diminuito i lanci per timore delle risposte israeliane. L’esercito di Tsahal fa rai nel nord della Striscia nel tentativo di colpire le zone di lancio di razzi. Dopo che martedì l’esercito aveva negato ogni responsabilità israeliana nella strage sulla spiaggia di Gaza, ieri un generale ha parlato della possibilità che a uccidere gli otto palestinesi possa essere stato un ordigno inesploso israeliano, e non una mina palestinese, come detto in precedenza. L’Anp ha chiesto all’Onu di aprire un’inchiesta.
Di seguito, l'analisi di Carlo Panella:
Roma. Tre anni fa, quando Arafat era ancora vivo, Abu Mazen rispose seccamente a Franco Frattini che gli chiedeva di concretizzare le prescrizioni della road map e di disarmare le milizie di Hamas e di al Fatah: “Neanche l’Europa può chiedermi di innescare una guerra civile tra palestinesi”. Ma, morto Arafat, preso il suo posto, oggi Abu Mazen, con la sua decisione di convocare un referendum già rifiutato da Hamas, rischia proprio di far deflagrare, per altra strada, una guerra civile interpalestinese. Il referendum che deciderà se dare o no ad Abu Mazen il diritto di trattare con Israele sulla base del documento di Marwan Barghouti – leader palestinese rinchiuso in un carcere israeliano – è sicuramente frutto di fantasia politica, e anche coraggio. Ma non è certo una mossa raffinata. Ha la forma della politica, ma la sostanza dello scontro militare duro, diretto e frontale con Hamas e le sue milizie. Se il referendum si farà e la partecipazione sarà rappresentativa – nonostante il boicottaggio di Hamas – vi saranno soltanto due vie di uscita. Se Abu Mazen vincerà, il governo del premier Haniye si troverà privo di ogni potere, emarginato da un negoziato con Israele che lo escluderà e che sarà condotto – compromessi inclusi – unicamente dal presidente palestinese sulla base di un indiscutibile mandato popolare. Se Abu Mazen, invece, perde (ma i sondaggi, per quel che valgono in Palestina, lo negano), Hamas accumulerà una tale “massa critica”, che potrà egemonizzare tutta la galassia Olp-al Fatah, sonoramente sconfitta due volte in sette mesi nelle urne. Alla fine della consultazione – se vi sarà – nell’Anp non ci dovrebbe essere dunque più coabitazione, ma soltanto un “monopartito” dell’Olp o di Hamas. Gli scontri sanguinari di queste settimane, gli attentati – l’ultimo di ieri – contro i responsabili della sicurezza nei Territori sono il frutto di questa dinamica da scontro terminale. E’ una spirale destinata a sfociare in guerra fratricida – come teme Amr Mussa, segretario della Lega araba – se falliranno, come è probabile ma non certo, gli ultimi tentativi di trattativa per annullare il referendum. Hamas, infatti, ha un unico modo per uscire dall’angolo: boicottare un voto che, se non è un golpe (è assolutamente incostituzionale), come denuncia Haniye, crea le condizioni per un golpe. Ma la campagna astensionista di Hamas non sarà certo fatta coi volantini e scatenerà violenze ovunque, per impedire alla popolazione terrorizzata di andare ai seggi. Alla fine di un convulso periodo di violenze, nella migliore delle ipotesi, si delineerà uno scenario di fatto, non di diritto, con “tre stati” (unico obiettivo che Abu Mazen può ragionevolmente conseguire per uscire dalla sua impotenza attuale): Israele, un microstato palestinese dell’Olp nella sola Cisgiordania, con confini e compensazioni concordate tra Ramallah e Gerusalemme, e un “Hamasland” nella Striscia di Gaza, previa eliminazione o fisica o politica della presenza di Fatah. Una specie di Bantustan del fondamentalismo terrorista che può trarre forza dal sicuro appoggio dell’Iran “atomico” di Mahmoud Ahmadinejad.
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