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Il Manifesto Rassegna Stampa
15.06.2006 Hamas alla prova, giudicata da Le Monde Diplomatique
che ovviamente dà il massimo dei voti

Testata: Il Manifesto
Data: 15 giugno 2006
Pagina: 10
Autore: Wendy Kristiansen
Titolo: «Hamas alla prova del potere»

Il povero governo di Hamas è sottoposto a  pressioni che nessun governo aveva mai subito prima, mentre il "movimento" ha fatto molti passi  verso la rinuncia alla "lotta armata" e il riconoscimento di Isreale.
Le pressioni internazionali rafforzano l'appoggio palestinese ad Hamas originariamente dovuto alla corruzione di Fatah (ma che scoperta!)
LE MONDE DIPLOMATIQUE, supplemento al MANIFESTO del 15 giugno 2006 pubblica un articolo di Wendy Kristiansen  ( giornalista, responsabile dell’edizione in inglese de LE MONDE DIPLOMATIQUE) che dovrebbe essere di approfondimento, ma si limita a riportare acriticamente la propaganda di Hamas.
Ecco il testo: 

«NESSUN GOVERNO ha conosciuto simili pressioni: siamo paralizzati. Non c’è il tempo né di respirare, né di pensare». Il dr. Aziz Doueik,di Ramallah, è il presidente del Consiglio legislativo palestinese (parlamento). Diplomato in varie università americane, conosce bene l’Occidente. «Se l’Occidente vuole l’insuccesso di Hamas, d’accordo. Ma ciò non servirà né alla pace né alla prosperità; assisteremo ad una radicalizzazione dei palestinesi e la regione ne pagherà il prezzo». Il denaro manca già. Sebbene l’Unione europea prometta di riprendere il suo aiuto diretto con una forma che resta ancora da definire, l’assedio imposto da Israele e l’Occidente al governo guidato dal Movimento della resistenza islamica (Hamas) dalle elezioni di gennaio 2006 porta ad una situazione drammatica in Cisgiordania e a Gaza che ricorda quella dell’Iraq durante gli anni di embargo. Migliaia di persone non dispongono più di denaro, di cibo, di medicinali, di benzina e gli ospedali hanno sospeso le terapie non urgenti. Queste sanzioni imposte ad un governo nato da elezioni trasparenti volute dall’amministrazione americana hanno provocato anche delle tensioni tra Fatah ed il presidente dell’Autorità palestinese, da un lato,e Hamas dall’altro. Settecentomila persone dipendono dagli stipendi versati dall’Autorità. «Il numero di funzionari è cresciuto da 120.000 a 167.000, fra il 2000 e il 2006 – riconosce Mahmoud Ramahi, segretario generale del Consiglio legislativo. Diecimila sono stati assunti negli ultimi tre mesi del precedente governo». Queste nuove assunzioni dovevano assicurare la vittoria di Fatah... Su un bilancio di 1,8 miliardi di dollari nel 2005, 790 milioni provengono dai diritti di dogana che Israele doveva trasferire – ma ha smesso di farlo –, 360 milioni dalle tasse interne, il resto dall’aiuto internazionale. L’Autorità comprende settantamila membri delle forze di sicurezza, quarantamila insegnanti e novemila appartenenti al personale medico.«Lo stipendio degli insegnanti rappresenta un terzo di quelli versati dall’Autorità – afferma Nasseredine Al-Chaer, vice primo ministro e ministro dell’educazione. Alcuni non vengono pagati da nove mesi. Gli insoluti si sono accumulati e al ministero non ci resta un dollaro. Anche il settore privato ne patisce e non possiamo fare niente senza aiuto. Le persone soffrono già, non sappiamo quanto durerà la loro pazienza. Facciamo già fronte ad un’agitazione sociale e politica, a scioperi». Il nuovo governo si è rivolto al mondo arabo e musulmano.L’Egitto e la Giordania sono restati in disparte, temendo le ripercussioni interne causate dal successo di un governo guidato da islamisti. Altri paesi hanno promesso il loro aiuto,conferma il ministro delle finanze,Omar Abdel Razeq:«Trentacinque milioni di dollari sono arrivati dell’Algeria prima che ci insediassimo, 10 milioni di dollari dalla Russia, che saranno utilizzati nel settore della sanità.Abbiamo 70 milioni di dollari in deposito alla Lega araba, 50 milioni promessi dal Qatar, 20 milioni dall’Arabia saudita, 50 e forse 100 milioni dall’Iran, e 50 dalla Libia. Il problema, è avervi accesso: le banche sono sotto pressione, particolarmente degli Stati uniti, per non trasferire il denaro». L’UNIONE EUROPEA,gli Stati uniti e altri fornitori di aiuti hanno imposto tre condizioni al nuovo governo:denunciare la violenza; riconoscere lo stato d’Israele; accettare gli accordi già firmati tra Israele e i palestinesi. Ma nulla è stato preteso dal governo israeliano.«È un appello a svegliarsi – afferma Soraida Hussein, una laica militante dei diritti della donna a Ramallah. Dobbiamo respingere gli interventi occidentali e ciò significa appoggiare Hamas. Le persone hanno votato per loro e questa scelta deve essere rispettata». Ghassan Khatib, un ex ministro,membro del Partito del popolo (ex comunista), esprime posizioni analoghe:«Chi vive all’estero non comprende quanto sia forte qui l’opposizione agli Stati uniti. Se il governo fallisce, Hamas aumenterà per essere stato punito dall’Occidente. Guadagnerà forza e legittimità, sarà il solo vincitore. Washington lo capisce? – E mette in guardia – se Hamas vuole che l’Autorità palestinese sopravviva,dovrà fare concessioni drammatiche. Arafat ha impiegato vent’anni a farle e a Hamas non si concede nessuna proroga. In compenso, se fa queste concessioni, rischia di perdere una parte della sua base». Alla sede del primo ministro Ismail Haniyeh a Gaza, la tensione è palpabile. Il suo consigliere politico, Ahmad Youssef, esprime l’inquietudine per l’incolumità di Haniyeh a cui la Sicurezza preventiva, dominata da Fatah, ha rifiutato l’utilizzazione di una strada sotto suo controllo, costringendolo a prendere una piccola tangenziale.È sorridente Haniyeh mentre attraversa un circo mediatico: le cineprese crepitano mentre posa davanti ad un’enorme fotografia della moschea Al-Aqsa affissa dietro la sua scrivania.Mostra i gioielli d’oro offerti dalle famiglie per venire in aiuto al governo. Il primo ministro fa una telefonata per congratularsi con Romano Prodi della sua vittoria in Italia. Parla con cautela: «Rispetteremo gli accordi israelopalestinesi se sono nell’interesse dei palestinesi». L’iniziativa del vertice arabo di Beirut di marzo 2002 (1), fondata sulla coesistenza di due stati, Palestina e Israele, sulla base dei confini del 1967 «ha molti aspetti positivi. Se abbiamo delle riserve, le renderemo note quando Israele avrà accettato questa iniziativa». Il suo governo è pronto ad accettare tutte le risoluzioni delle Nazioni unite sul conflitto israelo-palestinese? «Siamo pronti a lavorare in accordo con esse e a prenderle sul serio, se sono nell’interesse dei palestinesi e se anche Israele le accetterà».Compresa la risoluzione 242 (2)? «Se gli israeliani si ritirano, accetteremo la realtà. Ma la politica unilaterale che non tiene conto di noi – e che non teneva conto, prima di noi, di Mahmoud Abbas – non è una soluzione né giusta né pacifica». A Ramallah, il ministro delle finanze, Abdel Razeq, va oltre:«Dobbiamo prima vedere ciò che gli Israeliani offrono, poi non vedo ostacoli per il negoziato. Se Israele si ritira unilateralmente e uno stato palestinese indipendente si instaura, allora potremo trattare una tregua o anche una soluzione fondata su due stati. Ma occorre che le condizioni siano giuste. Ciò significa il ritiro totale di Israele entro i confini del 1967,compreso ciò che riguarda Gerusalemme; lo smantellamento delle colonie e del muro di separazione; permesso ai rifugiati di ritornare e di ricevere compensazioni,comprese quelle per le sofferenze del nostro popolo sotto occupazione. Si tratta di riconoscere la realtà sul campo».Quest’uomo dai modi dolci era ancora in prigione durante la campagna elettorale. È stato liberato con la condizionale per poter svolgere le sue mansioni, ma è convocato davanti ad un tribunale israeliano. Sui 74 deputati di Hamas,uno solo non è mai stato in prigione. Il lavoro del Consiglio legislativo e delle sue commissioni si svolge al tempo stesso a Ramallah e a Gaza, tramite un sistema video che permette agli eletti delle due regioni di comunicare. Le autorità di occupazione vietano alla maggior parte di essi di superare le poche decine di chilometri che dividono le due entità,sempre più isolate l’una dall’altra. A Gaza, Ghazi Hamed, il portavoce del governo, spiega:«Abbiamo detto agli europei che eravamo pronti al compromesso politico. Ma l’Occidente deve cessare di porre delle condizioni. Infatti, quali garanzie ci danno? E come possiamo accettare accordi che gli israeliani rigettano? Siamo chiari: se Israele accetta la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza, noi l’accetteremo. Ma Israele deve fare il primo passo in quanto noi non abbiamo terra da offrire; la sola cosa che potremmo offrire è la sicurezza ». Se i palestinesi hanno votato per Hamas, è perché ha le mani pulite, non è compromesso in affari di corruzione, ha una solida base sociale ed un buon bilancio di gestione municipale.E anche a causa dell’insuccesso della strategia di Fatah (3). Presidente del Centro palestinese per i diritti della persona a Gaza, Raji Sourani precisa: «Come organizzazione, Hamas arriva molto prima dei suoi rivali. È l’unica forza nei territori occupati, visto che gli altri sono ben dietro. Gli si concede il beneficio del dubbio perché i suoi dirigenti ed i suoi eletti sono delle persone comuni come noi. La realtà è questa: continuiamo a vivere sotto l’oppressione dell’occupante. Decide il colore dei nostri indumenti intimi, dei medicinali che diamo ai nostri bambini. Soffochiamo. Israele ha designato Arafat come il padrino del terrorismo e l’ha messo sotto assedio; Abu Mazen l’ha sostituito e Israele non ha trovato il tempo di negoziare con lui. E adesso siamo puniti per avere espresso liberamente la nostra volontà eleggendo Hamas. Che cosa c’è di nuovo? Eravamo già designati come nemici. Ma ciò che accade adesso prepara il terreno per l’arrivo di al Qaeda». Rawya Shawa,membro indipendente del Consiglio legislativo una delle rare donne di Gaza a non portare il velo, si innervosisce:«Ero contro Fatah, perché riportava indietro la società. È anche per questo che la popolazione ha votato per Hamas. Lo sosterrò finché lotterà contro la corruzione. Per una società musulmana e conservatrice come la nostra il suo arrivo non rappresenta un cambiamento. Non impone un governo di tipo khomeynista». Lo conferma, a Ramallah, la laicissima Khaleda Jarrar, deputata del Consiglio legislativo e membro del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp). «Il problema per le donne non è Hamas ma Fatah. Durante l’ultima legislatura, ha proposto leggi molto retrograde, facendo riferimento, a livello penale, all’islam o limitandosi ad una semplice pena massima di sei mesi per i delitti d’onore». Diplomata in diritto islamico, membro di Hamas e del Consiglio legislativo e ministro delle donne, Mariam Saleh va oltre: «Sì, abbiamo bisogno di riforme sociali: uguaglianza nel lavoro per le donne e riforma del codice della famiglia e delle leggi sull’eredità». Numerosi sono coloro che a Gaza esprimono la loro ostilità verso Fatah. Soufian Abou Zeida, ex ministro responsabile dei prigionieri in Israele, ci riceve nella sua casa vicino al campo di Jabaliya. Fatah approfitterà della sua sconfitta per superare le sue divergenze interne e riformarsi? «Purtroppo, penso di no». Qui, il rumore dei bombardamenti è più vicino. Le bombe colpiscono prima di tutto i dintorni delle polverose strisce di terra utilizzate dalle milizie di Fatah e della Jihad islamica per tirare missili artigianali Qassam – che, per la maggior parte, affondano nel mare – contro lo stato ebraico. La risposta israeliana, sproporzionata e ininterrotta, colpisce le terre di Beit Hanoun e Beit Lahya che costeggiano la strada verso il punto di passaggio di Eretz che porta in Israele. Non molto lontano, ad Al-Soudaniya, nella villa di Khaled Al-Yazji, ex consigliere di Arafat e viceministro degli Interni sotto Abbas, una deflagrazione assordante rompe la calma. Il telefono suona brevemente: un aereo o un drone, nessun bambino è stato ucciso. La conversazione riprende. «Non ho lasciato Fatah che è un self-service. Un piccolo gruppo ci ha traditi. È ora che se ne vada. Fatah è incapace di riformare l’Organizzazione di liberazione della Palestina (Olp), lasciamo allora che se ne occupi Hamas». Hamas spera,forse, di porre termine alla violenza, in particolare agli attacchi condotti a partire da Gaza che, ammettono i suoi responsabili in privato,sono inutili e anche nefasti. Ha aderito rigorosamente,da più di un anno, alla tahdia (periodo di calma). Jamil Hilal, sociologo e membro indipendente del Consiglio nazionale palestinese (Cnp), organo supremo dell’Olp, pensa che è tempo che «Hamas definisca ciò che intende per resistenza, in particolare che prenda posizione sugli attentati suicidi e su coloro che ne sono bersaglio ». Il 18 aprile 2006, più di una decina di persone sono state uccise a Tel Aviv nel più mortale attentato suicida commesso dall’agosto 2004. Se Abbas ha denunciato un atto «disgustoso», il portavoce di Hamas, Sami Abou Zouhri ha spiegato sulla Bbc che si trattava «di un atto di autodifesa (...) di una risposta naturale all’aggressione israeliana... I palestinesi continueranno la loro resistenza, ma essa deve limitarsi ai militari e ai coloni». Perché non dire che era la Jihad islamica e non Hamas che aveva condotto questa azione e che quest’ultimo si atteneva alla tahdia? Interrogato due giorni più tardi, assicurava: «Non ci sembrava desiderabile dire di essere favorevoli alla calma». Infatti, Hamas non ha rinunciato ufficialmente alla violenza. Tanto più che, nella settimana precedente, una ventina di palestinesi erano stati uccisi a Gaza dall’esercito israeliano. Il movimento ha fatto tuttavia un lungo cammino, dalla lotta armata ad una strategia di unione di tutti i palestinesi nella lotta contro gli accordi di Oslo che «vendevano la Palestina (4)».A Hamas sono serviti anni per entrare nell’arena politica, poi per partecipare non solo alle elezioni municipali ma anche a quelle del Consiglio legislativo istituito nella cornice degli accordi di Oslo. Il dibattito interno è tanto difficile in quanto la direzione del movimento è sparpagliata tra parecchi centri: a Gaza,dove è nato Hamas all’inizio della prima Intifada (1987),che vuole mantenere il suo ruolo dirigente; in Cisgiordania; e infine all’estero (dapprima a Amman,poi a Damasco). La vittoria elettorale, che Hamas non si aspettava e alla quale non si era preparato, l’ha costretto ad assumere una parte delle responsabilità dell’Autorità palestinese. Nelle amministrazioni comunali, si è mostrato pragmatico e non ha messo in pratica la sua visione di una società islamica.Ma,per il futuro, resta vago... UN MODERATO, Haniyeh, è stato scelto come primo ministro a scapito del dr. Mahmoud Zahar, l’attuale ministro degli affari esteri, più radicale, e solo superstite della direzione storica (Ahmad Yassine,Abdelaziz Al-Rantissi, Ismaël Abou Shanab sono stati assassinati dagli Israeliani). Ha 43 anni, vive modestamente nel campo profughi di Shati, a Gaza. Ma,mentre Hamas mantiene le sue strutture clandestine, molti suoi quadri occupano oramai delle posizioni ufficiali, all’interno.L’ufficio politico dell’organizzazione all’estero, diretta da Khaled Meshal, parla per e ai palestinesi della diaspora. Così l’interno e l’estero hanno basi separate,e questo permette una certa indefinitezza.Per esempio, il movimento non ha escluso di emendare la sua carta o di negoziare con Israele sulla base dei confini del 1967.Ma ciò che farà in avvenire resta ancora poco chiaro. governo. Generalmente, un governo è più moderato di un partito ». Ritorna sull’insuccesso dei tentativi di creare un governo di unità nazionale:«L’intoppo era il programma politico di Hamas. I dirigenti avrebbero accettato di cedere dei posti importanti, a patto di non silurare il loro programma.Quando parlano di condivisione del potere, non vogliono limitare la loro capacità decisionale.Vogliono introdurre una dimensione di autenticità nella politica.Trovano disonorevole allearsi ai nazionalisti decadenti. E,con la loro vittoria elettorale, almeno nelle prime settimane, non ne hanno sentito la necessità. Quindi – prosegue il nostro interlocutore – con la loro larga vittoria, avrebbero potuto concludere dei compromessi». Uno dei segni di attrito ha riguardato l’accordo sul controllo del punto di passaggio di Rafah, tra Gaza e l’Egitto,voluto dagli ispettori dell’Unione europea.Hamas ha accettato la decisione,ma non il modo in cui è stata presa:«L’abbiamo saputo dai giornali»,spiega uno dei suoi responsabili. La decisione di Said Siam, ministro dell’interno,in aprile,di creare una forza di tremila uomini per aiutare la polizia e la sicurezza,ha creato un’altra fonte di tensione.A dirigerla,aveva nominato Jamal Abou Samhadana,un comandante dei comitati popolari di resistenza ricercato dagli Israeliani.Abbas ha immediatamente dichiarato questa decisione «illegale e incostituzionale». Questa forza, tuttavia, ha cominciato a operare il 17 maggio. A Gaza, circondato delle sue guardie del corpo, il portavoce del ministro dell’interno,Khaled Abou Hilal, afferma:«Abbiamo un programma nazionale. Io ho lasciato le Brigate dei martiri di Al-Aqsa (5) per diventare il portavoce di un ministro di Hamas, senza lasciare Fatah. Mia moglie è di Hamas, mio cognato del Fplp.Ma siamo tutti contro la corruzione». Continua dicendo: afferma: «Dobbiamo essere chiari. Hamas deve avere dei mediatori esteri, ma, qui, parliamo di dialogo nazionale. Non abbiamo bisogno di Khaled Meshal. Non rappresenta il governo». Dal canto suo,Abdel Razeq spiega: «La dichiarazione di Meshal è stata distorta; si riferiva solamente a un gruppo di persone.Ma non era il momento giusto per dirlo e alcune cose che ha detto erano sbagliate». Per tutto il mese di maggio gli scontri sono proseguiti a Gaza, e si sono raddoppiati i tentativi di ripristinare l’unità palestinese. Un passo avanti è stato compiuto grazie alla decisione di accorpare la forza controversa guidata da Abou Samhadana nelle strutture di sicurezza ufficiali. il 25 e 26 maggio, a Gaza e Ramallah, si è svolta una trattativa nazionale, a cui hanno partecipato i partiti politici, ma anche universitari e uomini d’affari, in vista di elaborare una piattaforma comune. Il punto di partenza è la dichiarazione comune firmata l’11 maggio dai dirigenti incarcerati di tutte le organizzazione palestinesi, compresa la Jihad islamica, e in particolare da Marwan Barghouti, leader di Fatah in Cisgiordania, e dallo sceicco Abdel Halek Natshe di Hamas. Questa dichiarazione implica l’accettazione di un stato indipendente palestinese comprendente tutti i territori occupati nel 1967, il diritto al ritorno e la libertà dei detenuti. Essa chiede anche una riforma dell’Olp e di limitare le azioni militari alla Cisgiordania e Gaza. Questo piano potrebbe essere sottoposto a referendum popolare dal presidente Abbas qualora il governo lo rifiutasse. Abbas ha anticipato gli osservatori lanciando, lo scorso 26 maggio, questo ultimatum: un comitato per il dialogo nazionale, accettato da tutti i gruppi palestinesi (eccetto la Jihad islamica),deve avallare il piano dei prigionieri entro dieci giorni: altrimenti, il presidente procederà con il referendum.Hamas può accettare un’ingiunzione simile? Pur non rifiutando i termini generali del piano,Hamas esprime riserve su alcuni punti. La risposta di Haniyeh è stata prudente: il suo governo sta studiando tutti gli aspetti legali per lo svolgersi d’un referendum, e qualunque concessione non significherebbe un cambiamento del suo programma politico. La ratifica di un tale accordo porterebbe a una sorta di condivisione del potere tale da evitare il crollo? Abdel Razeq è ottimista:«Arriveremo ad una collaborazione tra questo governo e il presidente, e ciò ci condurrà finalmente ad un governo di unità nazionale se siamo pazienti e se facciamo dei compromessi ideologici. Allora il governo sarà in grado di prendere delle posizioni più flessibili, cosa che Hamas non può fare come organizzazione ». Hamas e Fatah saranno capaci di fare i compromessi necessari? Un altro scenario, forse più verosimile, sarebbe quello di fare un passo verso un governo di unità nazionale, in cui Hamas concederebbe uno o due ministeri, per esempio il ministero delle finanze. E se tutto ciò fallisce? «Ci dimetteremo onorevolmente », afferma Hamed, il portavoce del governo. Come sottolineato da Abdel Razeq:«Se il governo cade, Hamas sarà sempre potente e il Consiglio legislativo e l’occupazione saranno sempre là. Ma il sistema politico crollerà».Allora Israele dovrà amministrare direttamente i territori palestinesi. Questa prospettiva ha rilanciato il dibattito sul ruolo dell’Autorità.Nel momento in cui il processo di pace si è fermato, quale è il suo ruolo, se non pagare gli stipendi dei funzionari? Qualunque sarà l’avvenire,Hamas non sparirà.

(1) Gli stati arabi unanimemente proponevano a Israele una normalizzazione completa delle relazioni in cambio del suo ritiro dai territori palestinesi occupati.
(2) Risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite il 22 novembre 1967, sei mesi dopo la guerra dei sei giorni. Essa prevede in particolar modo il riconoscimento dell’indipendenza e dell’integrità territoriale dei due stati. (3) Si legga Hussein Agha e Robert Malley, «Il potere palestinese con il fiato in gola», Le Monde diplomatique/il manifesto,gennaio 2006.
(4) Si legga specificamente «Islamismi palestinesi, la nuova generazione » e «Doloroso risveglio per Hamas», Le Monde diplomatique/ ilmanifesto, rispettivamente giugno 1995 e settembre 1996.
(5) Le Brigate dei martiri di Al-Aqsa sono una milizia armata legata a Fatah,creata dopo lo scoppio della seconda Intifada nel 2000; i suoi quadri provengono soprattutto dal Tanzim, gruppo militante di giovani di Fatah.Hanno compiuto attacchi armati non solo contro i militari israeliani,ma anche contro i civili.
(6) Jerusalem Post,23 aprile 2006. (Traduzione di B.P.)

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