Dal FOGLIO di mercoledì 14 giugno 2006 un editoriale sulla visita in Iraq del presidente degli Stati Uniti:
Che piacere vederti”, ha detto il premier iracheno Maliki a Bush, arrivato a sorpresa a Baghdad. “Grazie per avermi ospitato”, ha risposto il presidente americano. Due battute che hanno dietro un mondo e davanti un nuovo Iraq. Due battute che hanno il sapore del passaggio di testimone, della volontà condivisa di dare al nuovo governo iracheno la spinta di cui ha bisogno per mettersi in piedi e camminare. Da solo. “Quando Maliki avrà nominato tutti i ministri andrò a trovarlo”, aveva detto Bush qualche tempo fa. E ieri è partito – in segreto, non lo sapeva neppure il premier iracheno – lui che non andava in Iraq dal giorno del Ringraziamento del 2003, con lo slancio che gli ha dato l’uccisione del leader di al Qaida, Zarqawi, perché le buone notizie fanno sentire meglio un po’ tutti, persino gli americani che ormai sono descritti soltanto come incarogniti contro il loro presidente e la sua guerra. Bush è andato da Maliki a marcare un punto di svolta, pur con la cautela che lo ha contraddistinto anche quando ha saputo della morte di Zarqawi. Il nuovo Iraq riparte da qui, da un governo faticosamente formato ma ora al completo, da un premier che ha saputo fare della mediazione la sua strategia e della sicurezza la sua missione – oggi è prevista una superoperazione antiterrorismo a Baghdad – da una fetta di popolazione – quella sunnita – che fino a qualche mese fa boicottava ogni lampo di democrazia e oggi aiuta gli americani a catturare i terroristi.
Bush doveva essere a Camp David ieri per il secondo giorno di un summit con i suoi più stretti collaboratori per stabilire quel che è stata definita l’“ultima best chance” per l’Iraq. Non si è parlato di ritiro delle truppe, né graduale né immediato. Si è parlato di futuro, di maggiori responsabilità di un governo che può “avere successo”, se non si fa influenzare dall’Iran e neppure dalle cassandre. Le violenze continueranno, nessuno ne dubita, i terroristi devono mostrare che non sono morti con il loro leader. Ma la strada è tracciata, la squadra è pronta, irachena e internazionale. E noi, ovviamente, a casa.
E uno su avventate dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano:
Forse Massimo D’Alema non si è ancora reso conto che fare il ministro degli Esteri è cosa diversa dall’intrattenere i compagni di sezione. Sulla delicatissima questione del ritiro delle truppe dall’Iraq, che apre una frattura con alleati importanti come l’America e la Gran Bretagna, si è comportato con sciatteria. Prima ha adottato il programma già stabilito dal governo di centrodestra. Poi, per reagire alle accuse dell’ala estremista della coalizione, si è messo a ipotizzare un fantomatico impegno assunto da Berlusconi con Bush a lasciare truppe a garantire la sicurezza di una missione umanitaria. Per la verità era stato Giuliano Amato, in visita in America dopo le elezioni, a parlare di trasformazione della missione militare in una missione civile difesa da un’adeguata protezione di truppe. L’ipotesi, di per sé, sarebbe di buon senso, e se è stata abbandonata dal governo è solo per gratificare i “folkloristici” esponenti del pacifismo a senso unico, che quindi contano eccome. Però un ministro degli Esteri non può, per una sorta di coazione a ripetere una campagna elettorale ormai conclusa, agire per denunce non documentate, una specie di Bonini&D’Avanzo alla guida dello stato. Quale sia la reazione di Washington a una simile acrobazia non è difficile immaginarlo, così come è evidente che la politica estera e di sicurezza dell’Italia, trattata con leggerezza, ne esce molto male.
L’idea che ricorrendo all’espediente di addossare a Berlusconi qualsiasi nefandezza si possa coprire l’inconsistenza di una politica (non solo estera) poteva forse essere buona in campagna elettorale, ma è insostenibile quando diventa l’unico asse dell’azione di governo. Romano Prodi, che promette di riportare l’Italia nell’ambito europeo, come se finora fosse stata in un altro continente, non fa meglio del suo ministro ed è poi costretto in angolo ad assicurare che il suo governo non vuole irritare gli alleati, tanto meno gli americani.
Il ritiro dall’Iraq faceva parte delle promesse demagogiche della coalizione che ha vinto le elezioni, e niente in Italia viene onorato come la demagogia. Se gestito in modo maldestro, il ripiegamento senza contropartite provoca tensioni superflue con l’America (che persino con Zapatero aveva concordato un riequilibrio in Afghanistan), senza ottenere alcun vantaggio col fronte del rifiuto europeo, ormai scombussolato dalla fine penosa dell’asse Chirac-Schröder. Non si sa neppure se così si saranno almeno accontentati i compagni della sezione, che forse hanno un’idea della serietà al governo meno pasticciata dei loro leader.
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