Olmert spiega all'Europa il piano di ritiro dalla Cisgiordania un analista israeliano si interroga sulla condotta del suo governo nella crisi iraniana
Testata: Il Foglio Data: 14 giugno 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Il ritiro di Olmert diventa più multilaterale per convincere l’Europa»
Dal FOGLIO del 14 giugno 2006:
Roma. Ehud Olmert, primo ministro israeliano, è in Europa, oggi in Francia, perché vuole l’appoggio dell’Unione al suo piano di convergenza, il progetto di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania. Ieri, davanti ai membri della comunità ebraica britannica, ha detto di voler coinvolgere il presidente francese, Jacques Chirac, durante l’incontro di oggi, nel fronte del sostegno al suo progetto. Per far colpo sull’Europa, Olmert ha adottato una nuova tattica: ha introdotto l’idea di un disimpegno meno unilaterale e più coordinato con l’unico partner palestinese plausibile, il rais Abu Mazen. Olmert vuole, entro la fine del suo mandato, nel 2010, nuovi confini. Quello che non piace all’Unione europea e agli Stati Uniti è che queste frontiere non siano concordate a livello internazionale. Quindi, Olmert, diligente e abile, con l’obiettivo principale di portare a termine il suo piano di ritiro, nel solco dell’eredità di Ariel Sharon, ha pensato che un progetto più “light” avrebbe aiutato a trovare il completo appoggio all’estero. Così, allo studio in Israele c’è una bozza di “ritiro coordinato”. A lavorare alla nuova versione sono l’ufficio personale del premier e il ministero degli Esteri. Olmert ha detto che rifiuta l’idea di un disimpegno da tuttta la Cisgiordania, che Israele si ritirerà senza negoziati dal 90 per cento del territorio. Il restante 10 per cento potrebbe rientrare in future trattative, se mai arriveranno. Nella bozza del ritiro coordinato, i confini del disimpegno seguirebbero il percoroso della barriera difensiva, non quelli del 1967, per questioni di sicurezza, dice. E i confini sarebbero provvisori. Israele manterrebbe il controllo sulla valle del Giordano. La bozza ricorda la seconda parte della road map della pace, sostenuta dalla comunità internazionale, dal Quartetto (Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione europea e Russia). Rimane qualcosa dell’unilateralismo del piano di convergenza originale, proprio perché manca la prima parte della road map, che chiedeva il previo smantellamento delle infrastrutture terroristiche palestinesi. L’idea di un ritiro concordato non contraddice le parole del ministro degli Esteri israeliano di poche ore fa, riconfermate dalla stessa Tzipi Livni al quotidiano Haaretz. Israele non ritiene al momento Abu Mazen un partner per un accordo definitivo. I confini risultanti dal piano “coordinato” sarebbero infatti provvisori. Ai tempi in cui la road map era ancora viva, il rais palestinese aveva rifiutato l’idea di frontiere “temporanee”. Chiedeva subito negoziati definitivi.
Forse una mina di Hamas Ieri Olmert ha dato il suo assenso al trasferimento di armi – giordane – ad Abu Mazen, per arginare Hamas, ma il governo di Gerusalemme non vuole pensare ad alcuna trattativa finale finché alla guida del governo dell’Anp c’è Hamas. Dopo l’episodio di venerdì scorso sulla spiaggia di Gaza – sono rimasti uccisi otto civili palestinesi – il gruppo islamico ha promesso nuovi attacchi contro il territorio israeliano e Israele ha aumentato le misure di sicurezza. Ma i risultati dell’inchiesta aperta subito dall’esercito israeliano per quel che è sembrato un bombardamento errato dell’Idf – che offrì subito le sue scuse – dicono che non si sarebbe trattato di un incidente causato dagli israeliani. A uccidere i civili potrebbe essere stata una mina, forse piazzata da miliziani di Hamas. Secondo diversi mass media le spiagge nella parte nord della Striscia di Gaza sarebbero state minate per impedire un’ipotetica incursione via mare israeliana nella zona di lancio dei razzi Qassam, quella bombardata quotidianamente dell’Idf. L’indagine dell’esercito è stata condotta sulle schegge trovate addosso a due dei feriti, ricoverati in ospedali israeliani. Non apparterebbero a ordigni dell’Idf. Secondo gli esperti militari, spiega al Foglio Daniel Doneson, analista politico di Gerusalemme, il cratere formatosi dopo l’esplosione sulla spiaggia indicherebbe che si sia trattato di una mina. “La prova ultima per l’esercito sarebbe il ritrovamento delle parti di ogni bomba sparata quel giorno dai militari”. In serata il ministro della Difesa, Amir Peretz, ha detto che “la politica di contenimento mostrata dopo l’incidente della spiaggia di Gaza è finita”. Lo ha dichiarato poco dopo l’attacco dell’esercito israeliano contro una cellula palestinese a Gaza che, secondo la Difesa, si stava dirigendo a lanciare missili katiuscia sul territorio israeliano. I soldati hanno sparato due razzi. Nell’esplosione sono morte 11 persone. Secondo Israele, tre di loro c’erano due o tre terroristi del Jihad islamico.
A pagina 4 dell'inserto l'analista israeliano Daniel Doneson critica come inconcludenti le politiche di Israele e degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran:
Gerusalemme. Un silenzioso mutamento della politica israeliana nei confronti dell’Iran e della sua minaccia nucleare ha accompagnato il recente cambiamento di governo nel paese, con l’insediamento dell’esecutivo di Ehud Olmert. L’ex leader Ariel Sharon ha sempre sostenuto la necessità del paese di mantenere un basso profilo con Teheran. Il ragionamento era chiaro: per Israele era importante avere l’Occidente al proprio fianco contro l’Iran. Quindi il governo doveva dire il meno possibile in pubblico e fare il massimo possibile attraverso i canali diplomatici e la guerra psicologica. Sharon si è permesso una sola dichiarazione in proposito: Israele non accetterà mai un Iran dotato di armi nucleari. Ma era Sharon: per gli israeliani aveva un’autorità assoluta in materia di sicurezza; con gli stranieri, invece, paventava la minaccia dell’irrazionalità più assoluta. La sua autorità interna comportava una politica israeliana unificata. La pressione sugli stranieri, alimentata facendo periodicamente trapelare alla stampa estera che Israele avrebbe attaccato l’Iran se la diplomazia avesse fallito, serviva a tenere concentrata sul problema l’attenzione di Stati Uniti ed Europa. C’era in gioco, in definitiva, la fama del generale Sharon. Nessuno dubitava che avrebbe dato l’ordine d’attaccare se l’Iran avesse raggiunto la Bomba. Con l’uscita di scena di Sharon e l’ascesa di Olmert, Israele si trova senza una protezione carismatica e ha difficoltà a ispirare lo stesso rispettoso timore. La precedente politica è messa in questione, per ragioni molto concrete. Primo: oggi la minaccia nucleare iraniana è una questione di politica interna. Benjamin Netanyahu, capo dell’opposizione, ha richiesto che il primo ministro Olmert rinunci al suo “piano di convergenza” e di evacuazione degli insediamenti della Cisgiordania e destini invece tutti i fondi per un riarmo in vista di uno scontro con Teheran. Già prima delle elezioni, Netanyahu era a favore di un’operazione contro l’Iran. Ora, insinua che Olmert non abbia abbastanza coraggio per fare ciò che deve essere fatto. Secondo: è caduto qualsiasi riserbo nei confronti dell’Iran. Il premier israeliano definisce il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad uno “psicopatico” e lo paragona ad Adolf Hitler. Il vice premier Shimon Peres gli ricorda che l’Iran può essere completamente distrutto. L’incapacità mostrata dalla leadership iraniana nell’assorbire i cazzotti retorici di Ahmadinejad gioca a favore di Teheran. Sta rapidamente trasformando la crisi in un conflitto tra Israele e Iran, togliendo molte pressioni all’occidente. Se gli Stati Uniti decidessero d’intervenire, passerebbero per i leccapiedi d’Israele. Sharon non avrebbe mai commesso un simile errore. Terzo: in Israele sta nascendo un dibattito politico. Le organizzazioni che hanno la responsabilità di garantire la “prevenzione politica” della minaccia iraniana (il Mossad, la Commissione per l’Energia Atomica e il ministero degli Esteri) appoggiano lo sforzo americano per isolare Teheran e imporre sanzioni. Ma rimane un problema: questo sforzo è un fallimento, e nessuno crede che possa dare qualche risultato concreto. Un importante ministro ha apertamente chiesto a Olmert se le sanzioni siano davvero il modo adeguato per affrontare una minaccia alla stessa esistenza d’Israele. La domanda che oggi si pone il paese è se il mondo abbia raggiunto il punto in cui sia necessario scegliere tra un Iran nucleare e un’operazione militare contro di esso, e cosa farà Israele in proposito. Le aspettative degli americani La politica israeliana è un passo indietro rispetto agli sviluppi internazionali. La lettera spedita da Ahmadinejad al presidente americano George W. Bush è considerata da Gerusalemme come un brillante colpo di diplomazia, che ha colto tutti di sorpresa. E’ riuscita ad aumentare la pressione sull’Amministrazione americana per avviare colloqui diretti con Teheran; persino una “eminence gris” come Henry Kissinger ha consigliato a Bush di non perdere l’opportunità, osservando che “il primo tentativo di approccio diretto da parte di un leader iraniano con il presidente americano in oltre 25 anni potrebbe avere intenzioni che vanno al di là della semplice propaganda e la sua demagogia potrebbe essere soltanto un modo per abituare la parte più radicale dell’opinione pubblica iraniana alla possibilità di un dialogo con gli Stati Uniti”. Lo stesso Kissinger vorrebbe l’avvio di questo dialogo. Israele, tuttavia, è piuttosto incerto sulla propria posizione di fronte alla possibilità di contatti fra Iran e Stati Uniti. I consiglieri di Olmert, alla vigilia della sua recente visita a Washington, gli hanno raccomandato di ribadire la gravità della minaccia iraniana contro Israele, senza però dare l’impressione di spingere l’America verso un conflitto militare o minacciare esplicitamente la possibilità di un’operazione israeliana. Ma, sfortunatamente, questo equivale a dire che la minaccia non è poi così grave. Nelle attuali circostanze, i diplomatici americani non credono a quanto dicono i servizi segreti israeliani sui tempi necessari all’Iran per raggiungere una capacità di armamento atomico. Sono certi che hanno ancora tre o quattro anni di tempo. Per di più, Israele teme che gli Stati Uniti possano richiedere al suo governo la garanzia che non intraprenderà iniziative unilaterali contro l’Iran senza prima consultarsi con Washington. In alcuni ambienti ufficiali si ha la netta impressione che l’America si aspetti che Gerusalemme si assuma tutta la responsabilità e che Gerusalemme si aspetti invece che sia Washington a farlo. Nel frattempo, a Teheran, tutto va avanti come al solito. Daniel Doneson esperto di teoria politica e relazioni internazionali a Gerusalemme (traduzione Aldo Piccato)
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