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La Stampa Rassegna Stampa
12.06.2006 Testimonianze sulla guerra del Libano
una recensione di Yariv Gonen

Testata: La Stampa
Data: 12 giugno 2006
Pagina: 0
Autore: Yariv Gonen
Titolo: «La guerra ritrovata»
Da La STAMPA di lunedì 12 giugno 2006:

LA guerra israeliana in Libano (1982-2000) è uscita questa settimana da un prolungato oblio, di per sé molto significativo, quando lo scrittore esordiente Ron Leshem, 30 anni, si è aggiudicato il primo posto nel premio letterario Sapir con un libro (Se c’è il Paradiso) che è scritto come un diario di guerra di uno dei soldati. «Io stesso sono rimasto sorpreso», ha detto. «I giudici, con questa scelta, hanno mostrato del coraggio».
Perché il libro, che da mesi vende molto bene specialmente fra i giovani, è una descrizione spietata della guerra vista dalla trincea, vista da sotto l'elmetto, vissuta nelle estenuanti imboscate in territorio nemico in cui ai militari israeliani non era consentito nemmeno fare i propri bisogni per non lasciare sul terreno tracce eloquenti per i guerriglieri Hezbollah. I loro escrementi - rivela Leshem, rompendo ogni possibile alone epico circa le attività delle unità scelte israeliane - venivano premurosamente conservati in un sacchetto, riportati alla base e là sepolti.
Altre guerre hanno lasciato tracce profonde, anche a livello artistico, in Israele. Ad esempio la guerra dei Sei giorni (1967) che portò con sé il culto della personalità dei generali vincenti, Moshe Dayan e Yitzhak Rabin. La guerra del Kippur, che provocò una profonda rottura sociale e in definitiva spedì il partito laburista a 20 anni di opposizione. Di essa si sono avute numerose espressioni artistiche, fra cui un’opera teatrale (Gorodish) su un generale molto ammirato negli anni precedenti e poi, stritolato dalla guerra, finito in Africa a cercare diamanti con cui sperava di finanziare la propria riabilitazione storica di fronte al Paese.
Ma i 18 anni di guerra in Libano (compromessa fin dal 1983 con l’uccisione dell'alleato falangista Bashir Jemayel, poi con la strage falangista nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, e quindi con la rimozione di Ariel Sharon dall'incarico di ministro della Difesa) non aveva finora lasciato traccia di sé nell’immaginario israeliano, fatta eccezione per un film di molti anni fa (Due dita da Sidone). Diciotti anni rimossi puntigliosamente dalla memoria collettiva che sono tornati adesso ad affiorare, con prepotenza, grazie alla prosa coraggiosa e irriverente di Leshem. «Il mio», spiega, «è un libro che parla di combattenti, anche di soldati “macho”: eppure è un libro molto antimilitarista».
Leshem non è mai stato in Libano. Il suo libro è frutto di decine di interviste con reduci che con lui hanno parlato «dugri»: termine ebraico che significa senza pudori, senza giri di parole, senza complessi. «Ho scritto», precisa l'autore, «per loro, ma anche per le loro madri e per le loro amiche». Che forse solo adesso, per la prima volta, si rendono conto di cosa sia stata la vita per ragazzi appena diciannovenni o ventenni, tra il 1999 e il 2000, nel fortino crociato Beufort, nell'estremo Sud del Libano, sotto il fuoco costante degli Hezbollah filoiraniani e con ordini politici da Gerusalemme di non passare mai alla controffensiva per non disturbare i complessi giochi regionali. «Allora», sarebbe sbottato un soldato, non troppo politically correct, «volete che ci comportiamo come fighette?».
Il diario dell'ufficiale Liraz Liberty non piacerebbe a Hollywood, perché non ha un grammo di retorica. Qui i militari, quando arrivano con l'elicottero sul cortile del Beufort, sanno che hanno 59 secondi di tempo per raccogliere il loro equipaggiamento e buttarsi selvaggiamente a terra perché al 60° secondo il pilota torna a decollare per non essere colpito da un razzo Hezbollah probabilmente già in volo. Sono momenti convulsi, scrive Liberty, e chi per caso fosse rimasto appeso a un pattino sgambettando per aria bisogna che si arrangi perché al pilota non interessa più.
Le pagine più commoventi del libro descrivono lo stupore attonito nel fortino Beufort quando i militari, ormai abituati a versare il sangue e a perdere i compagni, apprendono per caso che quella postazione era stata conquistata nel 1982 per un ghiribizzo del destino. Nella confusione che regnava all'inizio della guerra era stato deciso che, contrariamente a quanto previsto in un primo tempo, la conquista di quella elevazione crociata non era necessaria. Ma di staffetta in staffetta l'ordine si era perso per strada e, con dispendio di vittime, il Beufort fu effettivamente conquistato e mostrato «in trofeo» a Menachem Begin e a Sharon. Nei 18 anni successivi i giovani israeliani avrebbero continuato a combattervi, senza un motivo ben preciso.

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