Guantanamo come la Cambogia di Pol Pot ? le illusioni ottiche di Giuseppe Zaccaria
Testata: La Stampa Data: 12 giugno 2006 Pagina: 7 Autore: Giuseppe Zaccaria Titolo: «I «terroristi» torturati il lato oscuro della lotta per la libertà»
Guantanamo come la Cambogia di Pol Pot. E' l'incredibile paragone con il quale si apre un articolo di Giuseppe Zaccaria pubblicato da La STAMPA del 12 giugno 2006 Il tenore del testo si mantiene simile, con la costante preoccupazione di indicare nell'Occidente che si difende dal terrorismo il maggior violatore di diritti umani del mondo. Ecco il testo:
I simboli dell'ingiustizia hanno cambiato patria. Un tempo, verso la metà degli Anni Settanta, si collocavano nella Cambogia di Pol Pot e davano origine a memorabili inchieste giornalistiche condite da racconti gotici. Per tutto il decennio successivo coraggiosi esploratori si erano avventurati nelle segrete africane per documentare l'esistenza di detenuti ridotti a condizioni subumane. La fine di Nicolae Ceaucescu in Romania aprì le porte di alcune prigioni che facevano vergogna al genere umano. Ma tutto questo, tutta la galleria degli orrori ai nostri occhi risultava in qualche modo consolatoria perché riguardava altri luoghi, altre civiltà e regimi. Adesso lo scandalo è dalla nostra parte, quella dell'Occidente, e si perpetua nelle prigioni d'emergenza nate sull'onda dell'11 settembre. Questi buchi neri della legalità hanno caratteristiche comuni: anzitutto sono gestiti da militari, in secondo luogo non prevedono garanzie per i detenuti, i reclusi non hanno status giuridico, non c'è limite alla carcerazione preventiva, viene ammesso l'uso dell'isolamento e della tortura. Infine i lager dell'antiterrorismo si collocano tutti fuori dal territorio americano. Guantanamo anzitutto, a Cuba, ma poi Abu Ghraib, orribile falansterio presso Baghdad, e poi Bagram, 60 km da Kabul. Cronache recenti hanno poi ricostruito la storia delle prigioni volanti che la Cia ha adoperato su larghissima scala per trasportare i sospetti terroristi su e giù per l'Europa. E altre carceri «segrete» esistono, o senza dubbio sono esistite in altre zone dell'Iraq (per esempio, l'aeroporto di Baghdad) o in posti che nessuno ha ancora scoperto, luoghi in cui, come ha dichiarato il portavoce di Guantanamo dopo che tre reclusi si erano uccisi, «il suicidio è un atto di guerra» e le torture un modo per ripristinare la pace. Perfino Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury, ha levato la voce contro simili insulti alle tradizioni democratiche e alla civiltà cristiana. «La tortura non fermerà il terrore», ha scritto Amnesty International: al contrario, sembra proprio che le notizie filtrate da quei lager continuino a provocare reazioni sempre più violente nel mondo islamico, anche tra chi integralista non è. L'anno scorso Newsweek pubblicò una lunga analisi di tutte le leggi, meglio delle «non leggi» che alla giustizia americana rendevano possibile questo doppio regime. Nel territorio degli Stati Uniti qualsiasi detenuto ha diritto a conoscere le accuse che gli vengono mosse e ad essere scarcerato se il giudizio non può essere immediato, in campi come Guantanamo tutto è affidato a una commissione di tre militari che emette decisioni senza possibilità di appello. E fra le centinaia di detenuti che sono transitati in quell'obbrobrio alcuni non erano né terroristi né pericolosi: tornati liberi, a volte dopo anni, hanno fatto racconti terribili. Maltrattamenti, interrogatori continui, scosse elettriche. «Sono stato tenuto per giorni in una specie di gabbia, picchiato ripetutamente, incappucciato», raccontò per primo l'imam di Saddam City quando l'Iraq era stato appena occupato e delle carceri speciali americane nessuno parlava ancora. Poi lo scandalo di Abu Ghraib aprì gli occhi al mondo e l'immagine degli «incappucciati» si stampò come una macchia indelebile sui vessilli di guerra dei reparti statunitensi. Nei tempi che viviamo non c'è nulla che prima o poi non trapeli e per una serie di circostanze questo giornale fu il primo a parlare delle torture di Abu Ghraib, prima ancora che i giornali e le tv americane saltassero sull'argomento. Due anni fa, in ottobre, a Baghdad accadde che un venerdì qualcuno distribuisse dopo la preghiera in moschea un volantino ciclostilato. Il foglio non portava firma ma riproduceva l'appello di una detenuta che dal carcere chiedeva aiuto, parlava di violenze di ogni genere, di interrogatori pianificati sulla tortura, cani addestrati ad aggredire i detenuti. Chi scrive si recò al carcere cercando di capire meglio, naturalmente gli fu impedito l'ingresso ma già fermandosi intorno a quegli orridi muraglioni e parlando con parenti di detenuti fu possibile capire che la denuncia aveva fondamento, e dunque venne pubblicata. Pochi giorni ancora e le prime foto di quelle indegnità avrebbero cominciato a fare il giro del mondo, con le conseguenze che sappiamo. Adesso gli ultimi suicidi a Guantanamo riaprono per un momento il coperchio di questa sentina e spingono politici e organizzazioni di mezzo mondo a manifestare il loro sdegno. Il leader del partito liberal-democratico del Regno Unito, Menzies Campbell, dichiara di voler visitare il campo di Guantanamo e critica Tony Blair per l'essersi limitato a definire questo scandalo «un'anomalia». Organizzazioni umanitarie saudite protestano affermando che nel campo «è stato commesso un crimine di cui sono responsabili le autorità americane». Dal Paese che un tempo sperimentò i lager nazisti si leva l'indignazione contro i lager americani: «Guantanamo dev'essere chiusa e i detenuti sottoposti a un regolare processo», dice Peter Struck, ex ministro socialdemocratico. Ancora una volta sulla scorta dei crudi avvenimenti di cronaca la protesta si leva in tutto in mondo anche se nessuno sa davvero quante siano e dove si trovino tutte le «carceri speciali» che pretendono di combattere il terrorismo con il terrore. Un’immagine simbolo della prigione di Guantanamo, nell’isola di Cuba, dove gli Usa hanno ammassato centinaia di detenuti senza diritti legali
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