La sconfitta dell'America in Iraq sarebbe anche la sconfitta dell'Europa intervista all'analista militare Tom Donnelly
Testata: La Stampa Data: 07 giugno 2006 Pagina: 4 Autore: Maurizio Molinari Titolo: ««Se ci battono, perderete anche voi»»
Da La STAMPA di mercoledì 7 giugno 2006:
«Una sconfitta dell'America in Iraq non è nell'interesse dell'Europa perché a farne le spese sarebbe l'alleanza». Parola di Tom Donnelly, stratega militare del centro studi «American Enterprise Institute» di Washington, considerato molto vicino all'amministrazione. Quali sono i piani del presidente Bush sull'Iraq? «Bush vuole rimanere, è moralmente impegnato a raggiungere la vittoria, ovvero il consolidamento della democrazia irachena. Su questo si andrà alle urne nel 2008». Ma il Pentagono parla da mesi di piani di ritiro delle truppe... «Non solo ne parla, ritira i soldati. Erano 160 mila un anno fa ed ora sono scesi a 130 mila, l'obiettivo è arrivare a 100 mila entro fine anno, andare via troppo rapidamente sarebbe l'errore peggiore». E dopo? «Le truppe che resteranno lo faranno sulla base di accordi bilaterali firmati dal governo americano con quello iracheno, sul modello di quanto avvenuto in Germania ed Italia dopo la Seconda guerra mondiale». I negoziati sono già iniziati? «Formalmente no ma ufficiosamente se ne parla da diverso tempo». La perdurante assenza di un ministro della Difesa a Baghdad complica le cose... «I colloqui continuano ma serve ovviamente un ministro per firmare. Ancora più seria per l'Iraq è la mancanza di un ministro dell'Interno, a cui spetta di garantire la sicurezza». Negli Stati Uniti lo scontento sull'intervento sta crescendo. Cosa potrebbe avvenire se i democratici riuscissero ad ottenere il controllo del Congresso in novembre? «Dipende da quante Camere avranno. Se ne vincessero una sola cambierebbe poco perché continuerebbero la campagna anti-Bush puntando a cavalcare la protesta fino al 2008. Se invece la vittoria democratica fosse più ampia il controllo di tutto il Congresso li obbligherebbe ad assumersi la responsabilità di decidere cosa fare in Iraq e dunque dovrebbero risolvere le loro contraddizioni interne perché sono divisi fra chi vuole gestire l'Iraq meglio di Bush e chi invece vuole solo disfare tutto quello che Bush ha fatto. Sulla carta, anche con il controllo di una sola Camera i democratici potrebbero tentare di bloccare i fondi all'Iraq come fecero con il Vietnam negli Anni "70 decretando la sconfitta, ma la maggioranza degli americani non lo accetterebbe». Considera stabile il sostegno della Gran Bretagna alla coalizione militare in Iraq? «E' stabile fino a quando c'è Blair perché condivide l'impegno morale di Bush. Ma se dovesse abbandonare il governo, facendo spazio ad altri laburisti o ai conservatori, credo che Londra ritirerebbe, in un modo o nell'altro le truppe. Prima o poi avverrà. Ma senza alterare il solido legame di alleanza con Washington». E quando Roma ritirerà le truppe, l'alleanza con gli Stati Uniti si indebolirà? «Dipende da come avverrà il ritiro. Se è vero che Prodi non è Berlusconi è vero anche che il suo governo di sinistra tradizionale non è quello della nuova sinistra di Zapatero. I rapporti fra Washington e Madrid si sono ridotti al minimo per come Zapatero si ritirò. Nel caso italiano si parla di lasciare una missione civile protetta. Ogni contributo è utile alla coalizione. Anche il Giappone ha fatto sapere di voler ritirare le truppe e si discute quale presenza lascerà. I rapporti fra noi e i giapponesi restano ottimi. E' nell'interesse dell'Europa, di tutti gli alleati anche di quelli che furono contro l'intervento, che l'Iraq non si trasformi in una sconfitta americana». Perchè? «In caso di vittoria in Iraq l'America dimenticherà in fretta le divisioni con l'Europa, se invece dovesse esserci una sconfitta saranno in molti ad imputare il fallimento alle scelte fatte da alcuni alleati. Ricordare le lacerazioni che vi furono in America dopo il Vietnam? Ebbene in questo caso sarebbero altrettanto profonde, ma con gli alleati».
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