Da La REPUBBLICA del 6 giugno 2006, la cronaca di Alberto Stabile:
GERUSALEMME - Dieci giorni di trattative non sono bastati a convincere Hamas ad accettare il cosiddetto «manifesto dei prigionieri», la piattaforma politica elaborata da un gruppo di reclusi eccellenti e adottata dal presidente dell´Autorità palestinese, Abu Mazen come base del «dialogo nazionale». A questo punto, con l´ultimatum di dieci giorni scaduto alla mezzanotte di ieri senza traccia d´accordo, la questione decisiva se accettare o meno la proposta dei detenuti come ipotesi di strategia valida per tutti, dovrebbe passare, secondo il piano annunciato da Abu Mazen, al popolo palestinese. Al quale, oggi, lo stesso presidente, dovrebbe comunicare la data del referendum.
L´idea di lanciare un referendum (che non esiste, come istituto, nella Costituzione palestinese) sul documento dei prigionieri nasce nelle stanze della Muqata, la residenza del presidente, dopo aver constatato l´impossibilità di coesistere, con un governo apparentemente attendista, ma sostanzialmente intransigente, come quello guidato dal leader di Hamas, Ismail Haniyeh.
Dopo aver cercato invano di convincere Hanyeh ad accettare le condizioni poste dalla comunità internazionale, Abu Mazen s´è ritrovato a guidare un´Anp messa in ginocchio dal boicottaggio economico internazionale. Lui stesso, eletto con un´ampia maggioranza sulla base di un programma che puntava tutto sul negoziato con Israele e rifiutava il terrorismo, s´è visto prigioniero di un lento ma progressivo processo di delegittimazione.
Abu Mazen ha deciso allora di uscire dall´angolo, inventandosi l´arma del referendum. Una mano decisiva gliel´ha data un gruppo di cinque detenuti eccellenti, tra cui un capo storico di al Fatah come Marwan Barguti e un esponente di spicco di Hamas del calibro di Abdel Halek Natshe, finiti nelle carceri israeliane con vari ergastoli sulle spalle. Adeguatamente sollecitati da Abu Mazen, e favoriti dalle autorità israeliane, senza il cui bene placido quel documento non sarebbe mai uscito dalla prigione, i detenuti hanno elaborato una piattaforma che prevede, la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del ‘67, con Gerusalemme est come capitale, il diritto al ritorno dei profughi e la limitazione della lotta armata soltanto all´interno dei territori occupati e non più sul territorio israeliano. Con ciò, in sostanza riconoscendo il diritto d´Israele ad esistere e la possibilità che esso coesista a fianco di uno stato palestinese «in pace e sicurezza», come recita la formula della Road Map.
Che il referendum proposto da Abu Mazen comporti "in sostanza" il riconoscimento di Israele è tutto da dimostrare. Di fatto tale riconoscimento appare subordinato a una condizione (il diritto al rientro dei profughi) che se applicata segnerebbe la fine di Israele come stato a maggioranza ebraica.
E´ evidente che Abu Mazen, sottoponendo la proposta dei prigionieri a referendum, anche se si tratta di un referendum non vincolante, cerca d´irrobustire la sua posizione, indebolendo al contempo quella di Hamas e del governo. Hamas non sembra in grado, infatti, di fronteggiare la grave crisi provocata dal boicottaggio. La promessa di una generica disponibilità al dialogo non è sufficiente a soddisfare le richieste della comunità internazionale (riconoscimento d´Israele, rinuncia della violenza e del terrorismo, accettazione degli accordi precedenti). Così come alcuni milioni di shekels resi disponibili dalle banche per pagare i salari a quei dipendenti pubblici che guadagnano meno di 1500 shekels al mese (circa 300 euro), lasciando fuori tutti gli altri, non bastano ad allontanare lo spettro della fame che, per la prima volta in 39 anni d´occupazione, grava sui palestinesi.
Scopriamo ora che "lo spettro della fame" grava "per la prima volta" sui palestinesi, in 39 anni di occupazione.
Ma sono recenti gli allarmi di Jean Ziegler, sociologo marxista e militante filopalestinese incaricato dall'Onu di una ricerca sulle condizioni di vita a Gaza, sulla sottoalimentazione nella Striscia.
In precedenza, ricordiamo gli allarmi sul "drammatico peggioramento" delle condizioni di vita palestinesi in seguito alla seconda intifada.
E, prima, sui nefasti effetti degli accordi di Oslo.
Tutti questi allarmi avevano, si badi bene, una singolare caratteristica: quella di ritoccare positivimanete i dati forniti in passato sul periodo precedente alla "crisi" del momento.
Non sarà che le statistiche palestinesi (che non sono pubblicamente accessibili) vengono manipolate a seconda delle esigenze propagandistiche contingenti?
E i giornalisti non farebbero bene a porsi qualche domanda in merito?
Il risultato del conflitto esploso tra Presidente e governo, tra al Fatah e Hamas è la guerra civile strisciante per le strade di Gaza. Ieri, in risposta a una sparatoria in cui sono morte cinque persone, tra cui una bambina di otto anni, un´esplosione ha distrutto una casa nel campo profughi di Jabalia, in cui viveva un capo dell´ala militare di Hamas. Un morto e diversi feriti. Poco dopo, decine di uomini armati hanno dato l´assalto alla stazione televisiva palestinese di Khan Yunis, accusata di parteggiare per il presidente, distruggendo le attrezzature.
Inevitabilmente, anche le banche sono entrate nel mirino della protesta. Anche se alcuni istituti si sono detti pronti ad anticipare gli stipendi dei 165 mila dipendenti dell´Anp da febbraio senza busta paga attingendo alle loro riserve, la maggior parte rifiuta ogni transazione per paura d´incappare nelle sanzioni americane. Ora, per i palestinesi militanti le banche sono diventate lo «strumento per affamare il popolo», mentre per i poveri sono semplicemente il luogo dove viene conservato in abbondanza ciò che a loro viene negato. Così, tutti i giorni ci sono irruzioni, manifestazioni, minacce contro le banche, anche se non ancora un vero e proprio «assalto ai forni».
Davvero tutto i disordini palestinesi sono spiegabili come conseguenza della "crisi economica" ? La lotta per il potere tra Hamas e Fatah per Stabile non c'entra nulla?
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