Testata: Il Giornale Data: 06 giugno 2006 Pagina: 19 Autore: Gian Micalessin - Dan Vittorio Segre Titolo: «Una giornata di guerra civile in Palestina - Dalla «rivolta araba» alle due Intifada, una faida senza fine»
La cronaca di Gian Micalessin dal GIORNALE del 6 giugno 2006:
L'ultima soglia è già stata superata, la guerra civile è ben oltre le porte, ma - da ieri notte - anche l'estremo limite per una riconciliazione sembra calpestato. Sepolte le sei vittime cadute in due successivi agguati ai militanti di Hamas, concluso l'assalto fondamentalista alla radio dell'Autorità Palestinese di Khan Younis, terminati gli assedi alle banche per incassare gli stipendi, a mezzanotte si è consumata l'estrema rottura tra il presidente Abu Mazen e il governo di Hamas. Lui Abu Mazen, il re tentenna improvvisamente irremovibile, rifiuta qualsiasi modifica al cosiddetto “piano delle carceri” e conferma la volontà di mandare avanti il referendum che rischia di mettere fuori gioco l'esecutivo integralista. Ma il rischio più grande è quello di un deflagrare delle polveri, di un'inarrestabile esplosione di violenza capace di trascinar via assieme al governo di Hamas anche la presidenza e l'ultima parvenza d'Autorità Palestinese. Di certo la guerra civile, parola inesistente secondo il premier Ismail Haniyeh nel vocabolario palestinese, sembra, oggi, un monolite di granito sospeso sulle sabbie di Gaza. Ieri centinaia di dipendenti pubblici hanno dato l'assalto alle banche per incassare la prima fetta di pagamenti promessa da Haniyeh. Solo pochi sportelli, nonostante le promesse dell'esecutivo, avevano ricevuto, però, i fondi governativi. I regolamenti di conti intanto si susseguono notte e giorno. Il più plateale è l'assalto alla sede della radio dell'Autorità Palestinese(vicina ad al Fatah) di Khan Younis. L'edificio circondato dai militanti integralisti viene preso d'assalto da uomini armati che sfondano porte e cancelli e minacciano i dipendenti dell'emittente. «Siete tutti collaboratori», urlano gli assalitori mentre costringono tecnici e giornalisti a sloggiare. Poi i kalashnikov aprono il fuoco sui trasmettitori mettendo a tacere una delle ultime voci favorevoli a Mazen. L'assalto è una rappresaglia per gli agguati della notte e l'attentato della mattina costati la vita ad almeno sei persone, fra cui due militanti fondamentalisti, due dei loro familiari e almeno due civili innocenti. L'attentato della mattina colpisce una casa del campo di Jabalya fatta esplodere con un ordigno posizionato all'ingresso. La deflagrazione uccide sul colpo uno dei militanti fondamentalisti del campo, ferisce la figlioletta di otto anni e un altro familiare della vittima. A questo concentrato di violenza casalinga s'aggiunge, in serata, un'incursione degli elicotteri israeliani alla caccia delle cellule responsabili dei lanci di missili Qassam dal nord della Striscia di Gaza. La vittima designata è Imad Asaliyah, un veterano dei Comitati di Resistenza Popolare. Accanto al suo cadavere e alla sua macchina disintegrata, i barellieri raccolgono un altro cadavere e tre feriti in gravissime condizioni, probabilmente componenti del commando. Ma il pericolo maggiore in queste ore è lo scontro intestino. Il vero punto di non ritorno, la dichiarazione di guerra aperta è quel referendum sul cosiddetto “piano dei detenuti” che accettando il progetto di “due stati” riconosce implicitamente la legittimità d'Israele. Quel piano in 18 punti, preparato nella prigione israeliana di Hadarim, comprende tra le cinque firme dei suoi promotori quella del segretario generale di Fatah, Marwan Barghouti, e quella del leader di Hamas Abdel Halek Natshe. Sfruttando la firma di un rappresentante dei detenuti che Hamas non può delegittimare, Abu Mazen ha dato dieci giorni di tempo all'esecutivo fondamentalista per accettare il piano. Scaduto alla mezzanotte di ieri il termine ultimo, il presidente sembra pronto a convocare un referendum dalle potenzialità devastanti. Secondo gli istituti di sondaggio palestinesi, il piano ha l'appoggio della maggioranza degli abitanti di Gaza e Cisgiordania e rischia di delegittimare il governo costringendolo alle dimissioni. Ma prima di arrivare al voto Mazen deve riuscire a farne passare la convocazione. La costituzione palestinese non consente, secondo alcuni, la convocazione di un referendum per decreto presidenziale, ma richiede l'approvazione del Parlamento. Mazen sostiene di essere perfettamente legittimato ad agire dalla situazione d'emergenza causata dal rifiuto di Hamas di riconoscere Israele e i trattati approvati in passato dall'Anp. «Vuole soltanto imporci quel documento, farlo passare sopra le nostre teste come se si trattasse di un testo sacro e noi non possiamo accettarlo», replicava, invece, il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri annunciando l'estremo «no» all'ultimatum presidenziale
Di seguito l'analisi di Vittorio Dan Segre:
Se Abu Mazen ordinerà con un decreto presidenziale di tenere entro quaranta giorni un referendum in Palestina, per far approvare il piano elaborato dai rappresentanti di tutte le correnti politiche detenuti nelle carceri israeliane, l'anarchia che da settimane cova a Gaza e in Cisgiordania si trasformerà in guerra civile. Per quanto paventata da tutti, cause immediate e remote sembrano rendere inevitabile questa tragedia. Le cause immediate sono essenzialmente due: la costituzione da parte del governo di Hamas di una milizia di tremila uomini non sottoposta all'autorità del presidente dell'Anp, teorico capo di tutte le forze armate; denuncia da parte di Hamas della illegittimità di un referendum basato su un accordo che accetta la coesistenza pacifica di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano nei confini del 1967. Il piano, per quanto contenga altre condizioni inaccettabili per Israele, distrugge la base ideologica stessa del movimento Hamas impegnato di fronte al popolo palestinese e al mondo islamico al non riconoscimento di Israele e alla lotta armata per la riconquista dell'intera Palestina mandataria britannica (il che lo staccherebbe anche dal movimento «madre» dei Fratelli Musulmani e di quello ancora più radicale degli islamici allineati sulle posizioni iraniane). Se la miccia ideologica-religiosa della guerra civile è pronta a esplodere, il contesto militare-politico e storico favorisce lo scontro. Esso è determinato anzitutto dal disequilibrio delle forze in campo: politicamente Hamas ha vinto le elezioni e occupato le istituzioni dell'Autorità nazionale palestinese. Militarmente tuttavia il grosso delle forze militari resta sotto il controllo di Al Fatah, battuto alle elezioni ma ancora in possesso del sistema economico e burocratico palestinese. Quanto al contesto storico (nel quale la lunga anarchia palestinese ha rinfocolato vendette e interessi di clan non meno che rivalità ideologiche) esso ha radici profonde. Lo si è visto nella prima Intifada del 1986-1990, detta delle pietre, quando Arafat soffocò da Tunisi la rivolta popolare palestinese mettendo fine (con l'aiuto di Israele) ai tentativi di consolidamento di potere di una emergente leadership locale anche se sostenuta da non poche bande mafiose. Lo si vide nella seconda Intifada (detta di Al Aqsa), questa volta armata soprattutto di «bombe umane», che sotto il sistema accentratore e corruttore del raìs alimentò una rete di milizie, gruppi familiari armati, mafie, servizi di sicurezza multipli e nemici, in continua rivalità e resa di conti fra di loro. Ma la più sanguinosa memoria delle faide palestinesi risale al tempo del mandato inglese, in particolare alla feroce lotta che oppose le grandi famiglie aristocratiche dei Nashashivi, dei Dajani (Gerusalemme); dei Toukan e dei Masri (Nablus); dei Irshaeid (Jenin) e Abu Khadra (Jaffa) eccetera a quella degli Husseini, col famigerato mufti Haj Amin alla sua testa. Lotta che fra il 1936 e il 1939, nel corso di quella che si chiamò la «grande rivolta araba», fece oltre seimila vittime palestinesi, tre volte superiori a quelle causate dalla repressione inglese.
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