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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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La Stampa Rassegna Stampa
05.06.2006 L'Iran minaccia, Igor Man ne deduce che vuole trattare
e che il vero pericolo è a Washington

Testata: La Stampa
Data: 05 giugno 2006
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «Tra ricatti e seduzione»

Il regime di Teheran ha bisogno di tempo per far fronte al "malcontento" interno. Conviene concederglielo, spiega Igor Man sulla STAMPA del 6 giugno 2006, mettendo a tacere i "dottor stranamore" dell'amministrazione Bush.
Un articolo esemplare , che sintetizza tutti gli errori di una certa informazione di fronte al fondamentalismo islamico: l'indulgenza  per le dittature e il disprezzo per l'ansia di libertà di chi le subisce, vista come causa di "instabilità", il pacifismo a oltranza, tetragono anche dinnanzi alla minaccia di un genocidio nucleare contro Israele, la demonizzazione degli Stati Uniti o di capri espiatori dell'antiamericanismo e dell'antisemitismo come i neoconservatori.
Da parte nostra osserviamo soltanto che i fatti del giorno dicono esattamente il contrario di quanto sostenuto dall'analisi di Igor Man.
L'Iran, lungi dal mostrare una qualsiasi volontà di trattare, preferisce ricorrere alle minacce.
Ecco il testo:

Noi non vogliamo la guerra ma siamo decisi a difenderci e chiunque ci minacci sperimenterà l’affilatezza della nostra ira, la collera di questa nazione»: ipse dixit l’ayatollah Ali Khamenei. La suprema guida spirituale dell’Iran ha parlato alla televisione nel diciassettesimo anniversario della morte di Khomeini, il «grande imam» che con la sua rivoluzione a mani nude costrinse senza colpo ferire il potente Scià Reza Pahlavi ad abbandonare in fretta e furia il Trono del Pavone. Il 4 di giugno del 1989, ad ore 7 del mattino radio-Teheran per voce d’uno speaker strangolato dalla commozione così annunciò la morte di Khomeini: «...è volato al cielo e il suo cuore colmo dell’amore per Dio e per l’umanità oppressa, ha cessato di battere». Khomeini aveva 89 anni e la sua agonia era durata undici giorni penosi. I punti vitali dell’immensa metropoli ch’è Teheran furono subito pattugliati dai pasdaran, i miliziani della rivoluzione, da soldati a bordo di mezzi pesanti. Drappi neri corsero come d’incanto ad abbrunare la città tutta, gli altoparlanti diffondevano versetti del Corano e un arrangiamento di musiche funebri occidentali.
Quello di Khomeini, due giorni dopo la morte, fu un funerale orgiastico, quasi un linciaggio. Per il suo lavoro di «storico dell’istante» il Vecchio Cronista ha visto diversi funerali diremo importanti.
Ad esempio quello di Gandhi, dominato dal silenzio che denunciava muto strazio - quello sobrio sino alla scabrosità di Golda Meir pianta senza falso pudore dai vecchi sionisti compagni di strada - quello istericamente incasinato di Nasser che faceva sentire orfani tutti gli egiziani, proprio tutti - quello regale di Kennedy dove amaramente spiccava la bandierina del piccolo John-John - quello tumultuoso di Madre Teresa di Calcutta coi miserabili indù che ad un certo momento dirottano il corteo ufficiale sino alla minuscola casa della suorina, ritagliata nel più vasto tempio della Dea Kalì.
Travolto dalla furia disperata del dolore collettivo Khomeini rischiò di finire nella fossa smembrato. Falliti tre tentativi di atterraggio dell’elicottero con la salma, Khamenei, il successore, grida alla tv: «Fratelli, l’imam deve riposare, date tregua al vostro dolore». Invano. Getti d’acqua, implorazioni, strattonate di imbestialiti pasdaran non riescono a contenere la massa umana (tre milioni, forse più di persone) che il dolore rende feroce. Soltanto la pietà impedisce di definire selvagge le scene del collettivo dolore persiano cui assistemmo allora.
La folla, nel vedersi le telecamere puntate addosso si inebria di protagonismo e i dolenti saltellando, percuotendosi la testa con accanimento disperato, flagellandosi la schiena con una sorta di gatto a nove code dalle punte d’acciaio che arabescano di sangue le camicie scure per lutto, i dolenti ficcano se stessi dentro l’obiettivo in un raptus di vanità. «Il mondo deve vedere il nostro dolore», gridano.
«Il mondo deve vedere il nostro sdegno», gridavano uomini e donne manifestando contro gli Stati Uniti davanti all’Ambasciata americana dopo la presa degli ostaggi. Allontanatisi i giornalisti delle tv di tutto il mondo, i volti dei dimostranti riacquistavano sembianze umane.
Il 1° febbraio del 1979, tornando in patria dopo 15 anni di esilio, Khomeini assicura la fine dei «tre satanici cani rognosi», lo Scià, Carter, Saddam. «Il loro destino è segnato, nemmeno Gesù riuscirà a salvarli, gli taglieremo l’acqua». Detto che l’imam, non avrà la terza preda, rimane da chiedersi il perché del richiamo al Cristo. Forse perché Gesù è «un Profeta autore di miracoli» come attesta il Corano? In fatto il richiamarsi a Gesù (come anche oggi accade) è strumentale giacché colpisce gli occidentali e, inoltre, ha motivazioni in vero storiche. La storia della religione sciita principia nel 632, alla morte di Maometto quando il cugino e genero Alì, che diventerà il primo imam degli sciiti, viene scartato dalla successione politica. Il Califfo (sostituto del Profeta) è scelto fuori della famiglia degli hascemiti: è il predicatore Abu-Bakr. La Sch’ia, la «fazione» di Alì, non riconosce il nuovo capo e si stacca dalla Sunna, la tradizione ortodossa. Ad Alì, assassinato nel 661, succede il figlio Hassan e, poi, il secondogenito Hussein massacrato nel 680 a Karbala (Iraq) dai sunniti. La fine di Hussein è atroce: i sunniti tagliano a lui e ai suoi seguaci l’accesso al fiume. Durante tre giorni la lotta impari si coniuga col tormento della sete, sino al sacrificio finale. Anche il supplizio della sete interviene nel martirio di Gesù ma se il cristianesimo è «ostia di vita», lo sciismo è soprattutto cupidigia di martirio e punizione spietata del non credente nemico, «ipocrita sulla terra». L’islam di Khomeini e dunque di Khamenei e del neopresidente Ahmadinejad non è mediazione, è scolastica. Stando così le cose si capirà cosa esattamente vuol dire Khamenei quando afferma «vi taglieremo l’acqua» rivolto agli Stati Uniti e «ai loro lacché». E’ al petrolio che si riferisce la guida suprema quando, come ha fatto ieri celebrando Khomeini, rivolgendosi agli Stati Uniti dice: «Voi minacciate l’Iran, pretendete di gestire la distribuzione dell’energia (il petrolio) nella regione ma non ne siete capaci. Commettete il più piccolo degli errori nei nostri confronti e la vostra amministrazione sarà in pericolo».
Traspare però dal bombastico discorso di Khamenei il disappunto (una vera offesa) per la mancata risposta di Bush alla lunghissima (18 pagine) lettera di Ahmadinejad spedita l’8 di maggio. La missiva non conteneva proposte volte a sanare concretamente la crisi attuale tutta incentrata sull’opzione nucleare, irrinunciabile per l’Iran, considerata una infausta sfida dalla Casa Bianca. Gli Usa han fatto sapere con involontario (?) humour che il presidente Bush non avrebbe risposto alla lettera persiana trattandosi di uno scritto «prettamente religioso e filosofico». Successivamente, a Vienna, il segretario di Stato signora Condy ha detto che gli Stati Uniti son pronti ad unirsi all’Europa e ai rappresentanti della Cina e della Russia nella trattativa con l’Iran sul nucleare, sempreché Teheran rinunci all’arricchimento dell’uranio. Il secondo «figlio del fabbro» (il primo fu Mussolini), il populista Ahmadinejad che, è lui che lo dice, ha le visioni sicché «comunica» con l’imam nascosto, il messia (Madhi) atteso dagli sciiti, lui il piccolo felino della politica gridata, ha subito risposto picche. Khamenei gli è venuto appresso. La crisi perdura, anzi sembra aggravarsi. E tuttavia.
Tuttavia, osserva Ted Sorensen il mitico consigliere di Kennedy durante la crisi dei missili (cfr. La Stampa del 2 giugno) la lettera che allora, nel lontano 1962 Kruscev scrisse al presidente JFK parve, come oggi quella iraniana, un atto emotivo, ideologico. Da lasciar cadere. Subito. Ma Kennedy riconobbe che a prescindere dalla forma, la lettera rappresentava «una potenziale apertura». La cosa più importante, «in vero significativa» non era il contenuto ma il semplice fatto che fosse stata spedita. «Così la risposta del Presidente spianò la via alla soluzione pacifica». Certamente la crisi odierna è molto diversa. Anche l’irriducibile Iran ha le sue rogne. Interne e moleste, come si ricava dallo stesso discorso di Khamenei là dove accusa e minaccia interne «forze oscure» che «vogliono indebolire l’Iran». «Coloro che operano contro la sicurezza e la solidarietà nazionale col pretesto di sostenere etnie diverse, lavorano per il nemico e dal nemico sono pagate». Da qui la consegna al generoso popolo iraniano: «individuare i mercenari del nemico».
Nel 1919 Lord Curzon scrisse in un suo rapporto che l’Inghilterra doveva temere in Persia «i bolscevichi sciiti molto più dei bolscevichi rossi». Se è vero come scrive Paul Vielle che il culto del martirio in Iran «ha il senso di una protesta irreversibile contro tutti gli ordini del mondo», dovremmo forse concludere che l’Iran sciita sia comunque destinato a destabilizzare aree nevralgiche, alterando indispensabili equilibri. Eppure si ha l’impressione che l’Iran voglia tirare per le lunghe praticando una sorta di doccia scozzese diplomatica dove aperture e chiusure si alternino convulsamente come in un «tunnel degli spaventi» al lunapark. La leadership iraniana ha bisogno di tempo per mettere ordine in casa, per frenare il crescente malcontento d’un popolo potenzialmente ricco ma costretto a infiniti sacrifici quotidiani. Fatalmente il tempo lavorerà anche per gli Stati Uniti sempreché, come scrive Sorensen, i dottor Stranamore si riesca a scacciarli dalla Oval Room.

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