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La Stampa Rassegna Stampa
04.06.2006 Ebrei nella diaspora, ebrei in Israele
In italiano il testo di A.B.Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 04 giugno 2006
Pagina: 1
Autore: A.B.Yehoshua
Titolo: «Lettera agli ebrei americani»

Avevamo pubblicato in inglese su informazione corretta appena uscito il testo dell'intervento di A.B.Yehoshua all'American Jewish Committee, LA STAMPA l'ha tradotto in italiano e lo pubblica oggi 04.06.2006. Lo riproponiamo per i nostri lettori.

In un mio intervento a un convegno del Comitato ebraico americano tenutosi
a Washington agli inizi del mese scorso, ho espresso l'opinione (da me ribadita più volte nel corso degli ultimi trent’anni) secondo la quale gli ebrei israeliani conducono una vita ebraica nel pieno significato del termine mentre gli ebrei della diaspora vivono un ebraismo parziale. Tali affermazioni hanno scatenato una vivace polemica sul tema dell'identità ebraica sia in Israele sia negli Stati Uniti e commentatori americani e israeliani hanno dato una loro personale interpretazione alle mie parole esprimendo pareri favorevoli e contrari. Poco prima di entrare nella sala riunioni di Washington per l’apertura del convegno, ho ricevuto una telefonata
da Israele in cui mio figlio minore mi raccontava la commozione da lui provata durante la cerimonia di commemorazione per i caduti a cui aveva appena assistito con la moglie e la figlioletta. HO ricordato al moderatore della serata che in Israele ricorreva la giornata dei caduti, nella speranza che tra i molti discorsi di apertura della serata tale fatto venisse menzionato e a tutti i presenti venisse chiesto, come è consuetudine, di onorare la memoria delle vittime con un minuto di silenzio. Questo non è successo. E la festa dell'Indipendenza israeliana, che cadeva il giorno seguente, non ha avuto migliore fortuna ottenendo solo un accenno breve e sfuggente.
Non dico questo per lamentarmi ma per motivare il mio lugubre stato d'animo nel corso del convegno, provocato dalla constatazione che la profonda e naturale identificazione di molti ebrei americani con Israele si è andata notevolmente affievolendo negli ultimi anni. Anche i partecipanti ai successivi dibattiti hanno concordato che ormai da qualche anno è in corso un processo di allontanamento degli ebrei americani da Israele. I motivi sono molti e complessi e dipendono sia dal fatto che il «dramma israeliano» ha perso molte delle sue attrattive per gli americani, sia da un accelerato processo di assimilazione, a diversi livelli, in atto negli Stati Uniti.
La soluzione sionista

Nonostante il tema del convegno fosse «Il futuro, alla luce dei cento anni passati» sono stato forse l'unico relatore ad aprire l’intervento parlando del fallimento di gran parte degli ebrei del XX secolo nel prevedere l'asprezza e la profondità dell'ostilità nei loro confronti, cosa che, in ultimo, ha portato a uno stermino senza precedenti nella storia umana. I «sacri testi ebraici», che molti ebrei moderni considerano il perno della loro identità, non li aiutarono a comprendere i processi storici in atto e la realtà che li circondava. L'interesse era rivolto alla mitologia e alla teologia piuttosto che alla storia, e la semplice frase di Jabotinsky e dei suoi sostenitori, pronunciata all'inizio del XX secolo, secondo la quale «Se non liquiderete la diaspora, la diaspora liquiderà voi», cadde nel vuoto.
Dopo la conquista della Palestina da parte degli inglesi nel 1917, la dichiarazione Balfour aveva garantito una patria nazionale agli ebrei e se nel corso degli anni 20, quando le porte della regione erano ancora aperte davanti a loro, mezzo milione di israeliti (meno del 5% dell'intera popolazione ebraica del periodo) si fossero trasferiti laggiù, si sarebbe potuto fondare uno Stato ebraico che non solo avrebbe risolto il conflitto arabo-israeliano a uno stadio anteriore e con minore spargimento di sangue, ma già negli anni 30 avrebbe garantito un rifugio a centinaia di migliaia di ebrei dell'Est Europa che vedevano avvicinarsi la fine, limitando in modo significativo il numero delle vittime dell'Olocausto.
La soluzione sionista, in un momento in cui la rivoluzione comunista incombeva sugli ebrei dell'Urss, in cui gli Stati Uniti avevano chiuso le porte all'immigrazione per via della depressione economica e in cui le democrazie europee erano state soffocate dal fascismo e dal nazismo, rappresentava un'occasione unica che fu tragicamente mancata. E se non fosse stato per la sparuta minoranza (meno dello 0,5% dell'intera popolazione ebraica) che cento anni fa credette nella necessità di normalizzare la propria situazione creando uno Stato indipendente nell'antica madrepatria, i superstiti dell'Olocausto avrebbero potuto trovarsi, dopo le atrocità della seconda guerra mondiale, a peregrinare tra musei dedicati alla memoria di quella catastrofe senza nemmeno un pezzo di terra sovrano, unica consolazione per l'immane tragedia avvenuta.
A Gerusalemme

Ma un esame di coscienza duro e spietato di questa natura non è stato particolarmente apprezzato alla solenne apertura del convegno di un'associazione ebraica che, come molte altre sue simili, agli inizi del XX secolo aveva ignorato, se non respinto apertamente, l'ideale di Hertzl. Fin dall'inizio ho avuto sentore che stavo rovinando l'atmosfera distesa e cordiale con il mio sdegno sionista-israeliano. Anziché adagiarmi nella meravigliosa spiritualità dell'identità ebraica, esaltare il rinascimento culturale ebraico, esprimere compiacimento per i testi che siamo tenuti a studiare, per i valori ebraici che dobbiamo tenere a mente, ho cercato di tracciare un confine preciso tra il significato dell'identità ebraica in Israele e quella degli ebrei della diaspora.
Non ho parlato di «rifiuto della diaspora». La diaspora ebraica esiste da 2.500 anni, fin dai tempi delle deportazioni babilonesi, e continuerà a esistere per migliaia di anni ancora. Non dubito che, allorché in futuro verranno fondate colonie nello spazio, residenti di religione israelita concluderanno le loro preghiere con l'augurio «L'anno prossimo a Gerusalemme», orientandosi in direzione della città santa grazie a uno speciale congegno elettronico. Gli ebrei possiedono la stupefacente capacità di mantenere la propria identità unicamente nella loro coscienza.
La patria comune

L'unico ebreo iracheno rimasto a Baghdad dopo l'occupazione americana, o gli ultimi due superstiti in Afghanistan non sono, nel profondo della loro identità, né più né meno ebrei del rabbino capo di Israele o del presidente delle comunità ebraiche americane. La diaspora è la realtà più salda della storia ebraica.
Tutti coloro che mi hanno citato come se avessi detto che si è veri ebrei solo se si è israeliani hanno riportato una sciocchezza. Non mi sognerei mai di dire una simile assurdità. Non la diaspora, bensì Israele potrebbe essere un episodio passeggero della storia ebraica, e da qui l'urgenza di ricordare non solo agli ebrei sparsi per il mondo ma anche agli israeliani una verità semplice e nota.
L'identità israeliana (a differenza della cittadinanza israeliana che è condivisa anche da arabi palestinesi residenti nella patria comune ai due popoli) si trova ad affrontare tutte le componenti di una realtà di uno Stato sovrano con un territorio ben definito e governato da norme vincolanti. Di conseguenza la portata della sua espressione nella vita di tutti i giorni è infinitamente più ampia e significativa di quella dell'identità ebraica di un cittadino americano per il quale le decisioni importanti e rilevanti sono prese nel contesto della nazionalità americana. L'ebraismo di quel cittadino è volontario e lui può calibrarne la dose a seconda dei suoi bisogni. Noi, in Israele, al pari dei membri di ogni Stato sovrano, viviamo un rapporto vincolante e coercitivo l'uno nei confronti dell'altro. Siamo governati da ebrei, paghiamo le tasse a funzionari ebrei, siamo giudicati in tribunali presieduti da magistrati ebrei, prestiamo servizio in un esercito ebraico, la nostra economia è gestita da ebrei, i nostri diritti sociali sono stabiliti da ebrei e sono sempre ebrei a costringerci a difendere insediamenti che non volevamo creare o, viceversa, a evacuare a forza quegli stessi insediamenti. Tutte queste decisioni politiche, economiche, culturali e sociali creano e forgiano la nostra identità che, nonostante si basi su elementi primari, segue un processo dinamico di cambiamento e correzione, provocando dolori e frustrazioni ma anche il piacere di sentirsi liberi a casa propria.
Ciò che intendevo chiarire al pubblico americano era che per me i valori ebraici non sono profumi da conservare in un elegante cofanetto per goderne l'aroma il sabato o nei giorni festivi, bensì una realtà quotidiana irta di problemi all'interno della quale questi valori si modellano e sono giudicati, nel bene e nel male. Anche un ebreo osservante israeliano deve affrontare problemi di vita quotidiana di portata molto più ampia e profonda di quelli di un suo collega di New York o di Anversa.
Tra cento o duecento anni

Non esprimo condanna o plauso per la parziale identità ebraica degli ebrei della diaspora. È un dato di fatto che non ha alcun bisogno di essere legittimato da me, così come la mia identità non ha bisogno di alcuna legittimazione da parte loro. Ma poiché ci consideriamo membri di un unico popolo e le nostre due identità si rimescolano come in vasi comunicanti, è necessario chiarire la relazione tra di esse. Deve essere evidente a noi tutti che l'identità ebraico-israeliana è tenuta ad affrontare una realtà comprensiva, mentre quella degli ebrei della diaspora ha a che fare solo con un aspetto di questa realtà. Nel momento in cui si ritiene che l'impegno nello studio e nella interpretazioni dei testi, o nell'attività organizzativa di istituzioni ebraiche, abbia lo stesso valore di un'esistenza condotta nel complesso di una realtà economica, politica e sociale, l'impegno storico ebraico nei confronti di questa realtà non solo perde valore e significato morale ma corre anche il rischio di scadere dal totale al parziale.
Ritorno in sinagoga

Non è un caso che più di mezzo milione di israeliani vivano al di fuori di Israele. Se l'identità ebraica può nutrirsi dello studio di testi sacri, del mantenimento della memoria, di una sporadica attività comunitaria e fintanto che gli efficienti inviati del movimento Chabad (movimento religioso hassidico) forniranno servizi religiosi istantanei in tutti i punti del mondo, cosa c'è di più facile, nell'epoca della globalizzazione che trasferirsi altrove con tutta la famiglia armi e bagagli? Dopo tutto questa identità è eterna e accessibile ovunque.
Anche la «israelianità» si trasforma dunque in un indumento che ci si leva nei momenti di disagio come un abito qualunque, così come ebrei polacchi e rumeni si lasciarono alle spalle i loro paesi di provenienza per trasformarsi in americani e inglesi, o gli ebrei marocchini e tunisini in francesi e canadesi... E in futuro, tra cento o duecento anni, allorché la Cina sarà la maggiore potenza mondiale, perché gli ebrei non dovrebbero sostituire l'identità americana o canadese con quella cinese o di Singapore?
Il popolo ebraico ha dimostrato la capacità di sopravvivere ovunque per migliaia di anni senza perdere la propria identità e sarà così fintanto che i gentili lo lasceranno in pace. E se l'identità israeliana è paragonabile a un semplice indumento e non rappresenta una prova quotidiana di responsabilità morale dei valori ebraici, non c'è nemmeno da stupirsi che la povertà e i divari sociali si amplino in Israele e che sia facile comportarsi con crudeltà e senza alcun senso di colpa nei confronti di un popolo conquistato. Sarà sempre possibile sfuggire la realtà e trovare rifugio nei testi antichi, interpretandoli in modo che esaltino la nostra grandezza e ci diano speranza e consolazione.
La minoranza degli israeliani palestinesi che vive tra noi potrebbe contribuire alla formazione di una identità nostra, così come gli ebrei americani contribuiscono a quella americana, i baschi a quella spagnola, la minoranza rumena in Ungheria a quella ungherese, i còrsi a quella francese e così via. Più noi ebrei ci sentiremo israeliani e più la cooperazione con i palestinesi migliorerà. Se dovessimo, viceversa, concentrarci unicamente sulla spiritualità ebraica e sui testi antichi, perché in essi è contenuta l'essenza del nostro essere, ci sentiremmo sempre più alieni a loro.
Torno a fare riferimento ai testi antichi perché in circoli liberali ebraici il loro studio è divenuto di recente una sorta di ancora della nostra identità. Laici dichiarati fanno ritorno alle sinagoghe non tanto per cercare Dio ma alla ricerca di se stessi. Ma proprio io che scrivo, leggo, commento e mi sono dedicato per tutta la vita allo studio di testi, mi ribello all'irresponsabile e pericolosa dicotomia tra lo splendore dei testi antichi e la pochezza della vita quotidiana proponendo invece di riportare in auge l'ideale reale e concreto di «patria» anziché quello logoro e vago della spiritualità ebraica. In tutta la Bibbia la parola patria è ricordata solo 22 volte e spesso in relazione ad altri popoli.
Cose semplici ma vere

La prima frase pronunciata da Dio al primo ebreo è «Vattene dal tuo paese e dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò», e i discendenti di Abramo hanno rispettato l'ordine della prima parte di quella frase con grande scrupolosità per tutto il corso della loro lunga storia, trasferendosi da un luogo all'altro con sorprendente leggerezza.
È preferibile non ricordare la terribile fine di quelle peregrinazioni e se non vogliamo che la natura ebraica ci levi letteralmente, con l'aiuto dei nostri contendenti palestinesi, la terra da sotto i piedi faremmo meglio a ripetere i vecchi ideali sionisti sia agli israeliani sia agli ebrei americani i quali, nonostante si siano offesi per le mie parole, mi hanno trattato con cortesia esemplare. Forse perché, in cuor loro, sentivano che dicevo cose semplici ma vere.

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