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La Stampa Rassegna Stampa
02.06.2006 Trattare fino alla morte con l'Iran
i cattivi consigli di due analisti

Testata: La Stampa
Data: 02 giugno 2006
Pagina: 12
Autore: Ted Sorensen - Adam Frankel
Titolo: «Bush deve rispondere ad Ahmadinejad come JFK a Kruscev»

La STAMPA di  venerdì 2 giugno 2006 pubblica un articolo di  Ted Sorensen (avvocato, fu membro del Consiglio di sicurezza nazionale «ExComm», che consigliò il presidente Kennedy durante la crisi dei missili con Cuba, nel 1962)
e (Adam Frankel già consigliere nell’Ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato, aiuta Sorensen nella stesura delle sue memorie)  nel quale si sostiene che l'amministrazione Bush dovesse rispondere al proclama jihadista inviatole in forma di lettera dal presidente iraniano Ahmadinejad, così come fece l'amministrazione Kennedy con Kruscev, durante la crisi dei missili a Cuba
Sorensen e Frankel non si sono evidentemente accorti delle trattative in corso datempo tra l'Iran da un  lato e Gran Bretagna, Francia e Germania dall'altro.
Dal canto suo la STAMPA  , decidendo di riprendere l'articolo da una rivista americana,  non deve essersi resa conto della proposta di dialogo avanzata nel frattempo da Condolezza Rice, né della risposta negativa pervenuta dall'Iran.
Sfuggono poi completamente ai due analisti come al quotidiano torinese le peculiarità del regime iraniano: la dichiarata volontà di annientamento nei confronti di uno stato e l'invasamento religioso intriso di attese apocalitticche che caratterizza il presidente Ahmadinejad. 
L'analogia propostab da Sorensen e Frankel è poi difettosa per un motivo evidente. L'Iran non ha ancora le armi nucleari delle quali disponeva l'Urss di Kruscev. Al momento dunque un'azione preventiva contro il regime di Teheran non comporterebbe nessuno dei  rischi che si corsero nella crisi di Cuba.
Le cose potrebbero però essere decisamente peggiori tra qualche anno, se ci saremo  lasciti ingannare dalla propaganda e dalla "diplomazia" iraniana  fino al momento fatale dell'annuncio dell'atomica degli aytollah. Come suggeriscono, in sostanza , Sorensen e Franken.
Ecco il testo di questa analisi irrealistica e intempestiva:


Con la sua tipica mano pesante l’amministrazione Bush ha annunciato che se l’Iran sospende le attività sospette con l’uranio, gli Usa s’impegneranno in un’iniziativa diplomatica internazionale. È coerente col genere di parata multilaterale che gli Stati Uniti avevano messo in scena per il Nord Corea con i Paesi vicini e, per l’Iraq, con l’Onu. Il confronto sul programma di sviluppo nucleare iraniano è stato definito «una crisi dei missili cubani al rallentatore» da Graham Allison di Harvard, rievocando quelli che gli storici ricordano come «I 13 giorni più pericolosi nella storia dell’umanità».
Definire così la crisi iraniana è un utile promemoria ma non un’analogia calzante. Nell’ottobre 1962 scoprimmo improvvisamente che, nella massima segretezza, era stata quasi completata l’installazione di una serie di siti nucleari a 90 miglia dalle nostre coste, a opera di una potenza nucleare che a lungo aveva minacciato di «seppellirci nella Guerra fredda». Oggi un programma nucleare in nuce, lontano anni dalla realizzazione, è condotto in modo relativamente pubblico e graduale a oltre 7.000 miglia, da parte di un Paese in via di sviluppo che non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere attaccando gli Usa. Una reazione americana impulsiva, o peggio violenta, non è opportuna nè saggia.
Ma se accettiamo il paragone, possiamo confrontare la lettera inviata a maggio da Ahmadinejad a Bush con quella che il presidente sovietico Nikita Kruscev inviò al presidente Kennedy il 26 ottobre 1962: entrambe arrivano in un momento di massima tensione. La lettera è stata descritta dai media americani come «lunga» e «sproloquiante». L’amministrazione Bush l’ha liquidata. «Non risponde alla domanda che il mondo intero si sta facendo: “Quando la farete finita con il vostro programma nucleare?”», ha detto Bush. E il Segretario di Stato Condoleezza Rice: «Non contiene nulla che possa suggerire un corso diverso da quello noto». Il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack: «Mi pare non contenga nulla di nuovo».
«Lunga», «sproloquiante», senza nulla di «nuovo» o «concreto» era anche la lettera di Kruscev dell’ottobre 1962. Alla riunione di «ExComm», il giorno dopo, il Segretario alla Difesa, Robert McNamara, esclamò: «Diavolo, non c’è nulla che assomigli a una proposta. Non parla di togliere i missili. Sono 12 pagine di fuffa». L’assenza di reali spunti per il negoziato non è l’unica somiglianza. Entrambe le lettere sono piene di dinieghi, minacce, insulti.
Kruscev nel 1962: «Sbagliate a pensare che i nostri missili abbiano scopi offensivi. I missili sono a Cuba solo per difesa».
Ahmadinejad nel 2006: «La possibilità che il progresso scientifico sia usato per scopi militari è una ragione sufficiente per opporsi alla scienza e alla tecnologia?»
Kruscev: «Se cominciassimo a fermare le vostre navi, anche voi sareste indignati come noi e come il mondo intero ora. Non si può legalizzare l’illegalità. Se questo fosse permesso non ci sarebbe più pace. A cosa porta tutto questo?»
Ahmadinejad: «Fino a quando il mondo potrà tollerare questa situazione? Pensate che l’attuale politica possa continuare a lungo? Non c’è un modo migliore per interagire col resto del mondo?»
Nel 1962 la lettera di Kruscev, come oggi quella iraniana - parve un atto emotivo, ideologico, da lasciar cadere senza esitazioni. Ma il presidente Kennedy riconobbe che, malgrado la forma, la lettera rappresentava una potenziale apertura e che la cosa più significativa non era il contenuto ma il semplice fatto che fosse stata spedita. Così, la risposta del Presidente preparò la via alla soluzione pacifica della crisi. Kennedy insomma scelse insomma la comunicazione costruttiva, non la condanna. In retrospettiva, il rifiuto opposto da Bush ad Ahmadinejad può essere un’occasione perduta per scongiurare un conflitto, e non è la prima di questa presidenza.
Certo, la situazione è diversa, Kennedy e Kruscev avevano già un canale di comunicazione aperto mentre la lettera di Ahmadinejad è la prima da un capo di stato iraniano a un presidente Usa dalla rivoluzione di Khomeini, 27 anni fa. Motivo dii più per valutarla seriamente.
Se Bush vuole, come Kennedy, scongiurare la minaccia, deve tenere presenti alcune cose: JFK non diede retta ai «bombaroli» come il generale LeMay, che consigliava sempre di attaccare, senza pensare alle conseguenze, preferiva ascoltare diplomatici di esperienza come Tommy Thompson, che conosceva la mentalità di Kruscev. Non violò mai le leggi internazionali nè ignorò le istituzioni multilaterali, ma guidò l’opinione pubblica fino a isolare internazionalmente Kruscev. Non minacciò una guerra nucleare con una prospettiva unilaterale, come attacco preventivo o come ultimatum, anche se azioni aggressive in patria sarebbero state ben più popolari dell’opzione passiva della «quarantena». Ma Kennedy era un veterano decorato della IIª guerra mondiale e di conflitti ne «aveva abbastanza». Non è così per tutti i presidenti Usa.
2006 The American Prospect

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