Il senso dell’arca. Ebrei senza saperlo: nuove riflessioni – Alberto Cavaglion 01/06/2006
Il senso dell’arca. Ebrei senza saperlo: nuove riflessioni – Alberto Cavaglion Casa Editrice: L’ancora del Mediterraneo
Tra i periodi ipotetici della letteratura italiana del Novecento, uno dei più inattesi spetta senz’altro a Eugenio Montale, che nel 1926 scriveva: “Se fosse possibile essere ebrei senza saperlo, questo dovrebbe essere il mio caso”. A quel tempo, molti lo prendevano per ebreo, per via del sostegno letterario offerto a Italo Svevo. Ma il giudaismo interiore a cui Montale si riferiva non aveva nulla a che fare con l’appartenenza religiosa o con le contingenze della cronaca. Piuttosto si trattava di una condizione di “trasportabilità” del proprio universo affettivo e di fluttuante dolore: “Tanta è la mia possibilità di sofferenza – continuava infatti il poeta – e il mio senso dell’arca…fatta di pochi affetti e ricordi, che potrebbe seguirmi ovunque, inoffuscata”. Questa frase quasi dimenticata di Montale non è solo l’esergo del nuovo volume di Alberto Cavaglion ma anche il criterio ermeneutico da cui muove tutta la sua ricerca. Da una parte i rari “ebrei senza saperlo” della nostra cultura, dall’altra i molti ebrei contemporanei che sanno di esserlo, ma fanno fatica a capire perché lo sono. Il testo offre una galleria di tenaci sognatori, di utopisti convinti della necessità di un dialogo tra culture, consapevoli di rappresentare un’eccezione spesso tollerata di malagrazia. Il tono è quello, volutamente fuori moda, della scrittura morale, una dissertazione spesso polemica sull’ardua sopravvivenza delle minoranze in un’Italia intristita dal conformismo. Per decifrare lo spaesamento del giudaismo dei nostri giorni, Cavaglion si basa sulla cultura ebraica “modernizzante” tra Otto e Novecento. E’ il periodo del grande apporto ebraico allo stato unitario, in cui gli intellettuali ebrei, dopo aver fatto propri gli ideali del Risorgimento, riuscirono a riversare nella cultura italiana la forza creativa repressa durante l’età del ghetto. Attraverso alcuni brevi schizzi biografici, come quello di Ludovico Mortasa – il figlio del rabbino di Mantova che, nel 1919-20, divenne ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti – l’autore delinea il funzionamento di un laboratorio d’integrazione che si sarebbe poi fatalmente inceppato. Secondo Cavaglion, l’atto simbolico che mise fine a questa fase di compenetrazione fu la cosiddetta “legge Falco” del 1930, una sorta di concordato tra stato fascista e comunità ebraica. La normativa, solo a prima vista vantaggiosa, si adeguava in realtà all’ideologia autoritaria del regime e introduceva una pericolosa confusione tra competenze pubbliche e sfera della libertà religiosa. Il volume considera poi l’evolversi delle “politiche della memoria” nell’Italia del secondo dopoguerra. Anche in questo caso, i dubbi sono più pesanti della auto-celebrazione. Il ricordo della Shoah pare infatti all’autore un sentiero stretto, tra il pericolo dell’indifferenza e quello della commercializzazione: “Essere considerati dalla società civile il termometro delle sofferenze, garantire la persistenza sulle proprie spalle della memoria di un dolore che tende alla globalizzazione….non sono propriamente cose di cui vantarsi. Bisognerebbe avere ogni tanto la forza di dire no e chiedere di essere giudicati per quello che si è capaci di dare, e non limitarsi soltanto a ricordare”. L’arca degli ebraismi volontari e involontari non ha insomma modo di arrestarsi sulla cima di un pur precario Ararat. Può solo continuare a seguire la corrente, e più spesso a opporvisi,montalianamente (in)offuscata.