La politica estera italiana le idee chiare del sottosegretario Gianni Vernetti e le idee confuse della coalizione di governo
Testata: Il Foglio Data: 01 giugno 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione - Christian Rocca Titolo: «Vernetti ci parla di Iran, di democrazia e dell'occasione turca - Ci ritiriamo? Forse, ma da dove? Dall'iraq, da Kabul o dai Balcani?»
Dal FOGLIO di giovedì 1 giugno 2006, un'intervista al sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti sulla politica estera italiana:
Roma. Non esclude le sanzioni all’Iran, vuole incrementare l’impegno dell’Italia in Afghanistan, dice che la “politica estera italiana deve essere rifondata sulla base della democrazia”. Gianni Vernetti, neosottosegretario agli Esteri, conduce una combattiva (e solitaria) battaglia all’interno della Farnesina guidata da Massimo D’Alema. Ecco fatto – penseranno molti – un altro che parla come un americano. Non è così: Vernetti spiega che ha una delega per i diritti umani, le libertà individuali e la promozione della democrazia. Non che sia nuova, questa delega, c’era già con il governo Berlusconi alleato dell’America, ma per Vernetti è “centrale, fondante, prioritaria”. Una voce fuori dal coro? A giudicare dalle tante versioni di politica estera che si moltiplicano ogni giorno che passa, la risposta è sì. Anche se Vernetti minimizza, anche se dice che “la coalizione di centrosinistra è molto meglio di quanto la dipingono”. Sarà, ma pochi la pensano come Vernetti, che è a favore dell’ingresso della Turchia in Europa; che dice che “la troika ha fallito” con Teheran e tre anni di diplomazia europea non sono serviti a nulla e che “la questione del nucleare iraniano deve arrivare sul tavolo del G8”, così anche l’Italia può contare. Sul ritiro completo dall’Iraq, Vernetti fa quasi una smorfia di imbarazzo. L’Italia se ne va da Nassiriyah in nome dell’astio per la cosiddetta “guerra degli americani”: senza militari sarà dura, si sa, la missione civile senza protezione dei soldati non ha senso. Il sottosegretario dice che non saranno abbandonati gli iracheni, che tutto sarà deciso con il governo eletto a Baghdad e che ci saranno nuove forme di cooperazione non soltanto nel sud del paese come è stato finora. Ma Vernetti è ben più convinto quando rilancia la sua idea sull’Afghanistan, il rinforzo ai nostri soldati che passa per la collaborazione doganale e la Guardia di Finanza. Vernetti dice cose che la sinistra italiana non è abituata neppure a pensare. Di più. Ha contatti con un mondo che non piace a molti compagni di coalizione. Ieri sera è volato in Israele, per una visita privata nella quale forse incontrerà anche il premier, Ehud Olmert: ha rapporti con quel governo di Gerusalemme che, secondo la gran parte della sinistra, affama i palestinesi. Di più. Vernetti vuole costituire una fondazione per la democrazia, un ente indipendente a finanziamento pubblico alla maniera degli americani, come l’organizzazione del National Endowment for Democracy, quella che ospita i discorsi anche del presidente Bush. Ma Vernetti minimizza le divergenze, dice che la sinistra deve riflettere, cita il libro di Christian Rocca, “Cambiare regime”, come stimolo “affinché la sinistra da antifascista diventi anche antitotalitarismi”. La premessa è semplice: “La democrazia è un’opportunità” che non si limita a “un seggio elettorale con gli osservatori internazionali”. E’ “un sistema di valori”, complesso quanto affascinante. Includere paesi e popoli nel meccanismo della democrazia è il contrario del mantenere lo status quo, “ci sono giovani in Georgia, in Ucraina e in Bielorussia che ci chiedono di essere accolti nel sistema europeo, non possiamo far finta di niente”. Il tasto è dolente, la capacità dell’Europa di coltivare le passioni democratiche in fase di allargamento si sono ridotte, alcuni dicono annullate, ma “la globalizzazione della democrazia”, come la definisce Vernetti, non deve subire battute d’arresto. Anzi. Basti pensare alla Turchia, una sfida per i turchi e una per noi, enorme, “perché è l’occasione per dimostrare che islam, stato di diritto e democrazia sono compatibili”. Il suo progetto si sostanzia nel “riorientamento della cooperazione e lo sviluppo”: sono stati spesi fiumi di soldi “per i dittatori”, per quelli che sono i cosiddetti “failed states”. Anche la cooperazione deve essere “democratica”, perché “non c’è sviluppo senza democrazia”. L’esempio più fulgido della commistione tra sviluppo e democrazia è, secondo Vernetti, l’India, “con cui l’Italia deve collaborare molto di più”. Poi c’è la “community of democracy” d’ispirazione clintoniana, un’iniziativa che coinvolge 16 paesi coordinati proprio dall’Italia, nei quali il rispetto per i diritti umani e le libertà individuali è prioritario, un club “che deve diventare appetibile per i paesi non democratici”. La recente riforma del Consiglio per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite proprio questo doveva fare, ma “ha dentro Cuba e la Libia, e ho già detto tutto”, commenta Vernetti. Più parla più la sua voce appare solitaria. Eppure sorride sempre. Ma com’è che è tanto ottimista? “Beh, sono sottosegretario da neanche una settimana”.
Il quotidiano pubblica anche un'analisi di Christian Rocca, incentrata sul ritiro del contigentie militare italiano dall' Iraq (e da Afghanistan e Balcani come suggerisce Giovanni Russo Spena di Rifondazione ?) e sulle forme della prosecuzione del nostro impegno in quei paesi:
Un amico americano mi ha chiesto di spiegargli con parole semplici come cambia, e se cambia, la politica estera italiana ora che si è installato il nuovo governo di Romano Prodi con Massimo D’Alema alla Farnesina. La mia prima risposta è stata: tranquillo, non cambierà nulla a parte il promesso e già concordato ritiro militare dall’Iraq. Non era un secolo fa, la settimana scorsa. Il giorno dopo ho richiamato l’amico: no, guarda, non solo ritireremo presto le truppe, ma non lasceremo in Iraq nemmeno il personale civile. L’altro ieri, una terza telefonata: contrordine amico mio, siamo alla soluzione Zapatero però senza il coraggio guascone del premier spagnolo, in più ora pare a rischio anche la missione in Afghanistan. E’ finita? No, non è finita. Punto primo, Romano Prodi l’altro ieri ha specificato che dovrà decidere “collegialmente” il Consiglio dei ministri. Ma non quello di questa mattina, come si pensava. Un altro, a data da destinarsi. “Domani è presto, sinceramente”, ha detto ieri D’Alema. Punto secondo, c’è tempo ancora prima dell’incontro di Massimo D’Alema con Condoleezza Rice il 12 giugno a Washington, peraltro preceduto da un meeting informale tra Prodi e Tony Blair domani e da un vertice tra i ministri della Difesa, Arturo Parisi, e Donald Rumsfeld, il 9 a Bruxelles. La data ultima per sapere che cosa faremo è il 30 giugno, quando dovrà essere deciso che cosa finanziare e che cosa no. Questi sono i punti fermi, diciamo così – per il resto gli attori e i comprimari della nuova politica estera italiana non si fermano un momento spalleggiati dagli editorialisti dei grandi giornali che nello stesso articolo spiegano perché sarebbe giusto andarsene anche dall’Afghanistan, prima di affermare che sarebbe meglio di no. Massimo D’Alema, rispondendo a una provocazione di Gianni Riotta sul Corriere, ha scritto che sull’Iraq il governo confermerà la decisione già presa da Berlusconi, anche se poche righe dopo ha scritto che quella decisione segnerà comunque una discontinuità con la politica del precedente governo. Difficile da spiegare all’amico americano. Comunque, scrive sempre D’Alema, ne discuteremo con gli alleati, stiamo studiando pacchetti di iniziative alternative per sostenere gli iracheni e, poi, in ogni caso la decisione sui tempi e sui modi del ritiro non spetta a lui, ma al ministro della Difesa, Arturo Parisi. E il ministro Parisi che dice? E’ volato subito a Nassiriyah, ma non per controllare che i soldati avessero già preparato le valigie. Agli iracheni, infatti, ha spiegato che “non volteremo le spalle” al nuovo Iraq, non lo abbandoneremo. “L’idea di mandare una squadra di civili – ha scritto il cronista del Corriere della Sera al seguito del ministro – non è del tutto tramontata”. E’ così? Assolutamente no, dicono quelli di Rifondazione. Il capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, ha spiegato che non resterà nessun militare italiano a protezione degli eventuali civili, ipotesi ribadita con chiarezza anche da D’Alema (almeno nell’ultima settimana). L’Iraq si può aiutare anche senza una nostra presenza sul territorio. Dettagli? Nessuno. Comunque è già un bel passo avanti rispetto alla posizione dei comunisti italiani, i quali con Oliviero Diliberto hanno specificato che non sono interessati né ai problemi né al futuro del nuovo Iraq. Affaracci loro. Sull’Unità, giornale dei Ds, il capogruppo al Senato di Rifondazione, Giovanni Russo Spena, ieri ha scritto direttamente a Massimo D’Alema: caro ministro, andrebbero ridiscusse tutte le missioni all’estero. Tutte. Non solo l’Iraq, non solo l’Afghanistan, tutte, compresi i Balcani. Una linea alla Zapatero, ben oltre Zapatero. Il sottosegretario agli Esteri della Margherita, Gianni Vernetti, sempre ieri ha proposto l’esatto opposto: ampliamo il nostro impegno in Afghanistan. Tra l’altro, ha detto Vernetti, Zapatero ha fatto la stessa cosa: s’è ritirato dall’Iraq, ma ha aumentato la presenza in Afghanistan. Un’idea che il ministro D’Alema condivide, almeno così pare, e che potrebbe portare in dote a Condi Rice. Solo che la Rice in questo momento pensa all’Iran e non può stare dietro alle ultime dichiarazioni dei sottosegretari Sentinelli e Crucianelli. Anzi è probabile che chieda all’alleato D’Alema l’ok italiano per imporre le sanzioni economiche contro i turbanti atomici. Il ministro ieri è intervenuto anche sulla situazione afghana e ha concesso che si tratta di “un tema che deve essere esaminato”, malgrado vada tenuto conto che operiamo nel quadro di decisioni Onu, Nato ed europee. “Ambiguo”, ha titolato Liberazione. Lascia perdere, ho detto all’amico americano.
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