Come nasce il boicottaggio antisraeliano dei docenti inglesi Carlo Panella analizza l'origine dell'antisionismo in Gran Bretagna
Testata: Il Foglio Data: 01 giugno 2006 Pagina: 1 Autore: Carlo Panella Titolo: «Nasce nel 1920 la voglia inglese di boicottare Israele, nonostante Balfour»
Dal FOGLIO di giovedì 1 giugno 2006:
Israele non è mai stato molto amato in Inghilterra per una ragione storica: nella prima metà del Novecento quasi tutti i governi inglesi hanno spiegato al popolo britannico che la sopravvivenza dell’impero obbligava alla negazione del sogno sionista. Il legame tra la nascita di Israele e l’agonia dell’impero britannico è stato il motore che ha determinato le scelte di tutti i governi inglesi – non quello di Winston Churchill – per un motivo preciso: l’India o meglio i musulmani indiani. Il successo della richiesta di boicottaggio delle università israeliane, riscosso oggi tra i professori universitari inglesi, ha dunque un solido ancoraggio nella mentalità imperiale britannica, nella formazione delle sue classi dirigenti e nella definizione della geopolitica inglese del secolo scorso. Non fu un caso che il 29 novembre 1947, nel momento cruciale della votazione dell’assemblea dell’Onu, l’Inghilterra – unica fra le grandi potenze – si astenne nel voto che stabiliva la nascita di Israele e di uno stato palestinese sul territorio del Mandato. Non fu un caso neppure ciò che fece l’esercito inglese nei mesi successivi: fino al maggio 1948, quando era evidente la volontà di tutti gli stati arabi di soffocare nel sangue lo stato sionista, a mano a mano che ritirava i suoi 100.000 militari le truppe inglesi consegnarono direttamente le proprie postazioni e i propri armamenti ai gruppi armati arabi. Fu un vero e proprio boicottaggio inglese nei confronti di Israele, solidamente motivato dalla difesa ultima dell’impero e poi delle sue vestigia. Dal 1921 in poi, a Londra erano diventate minoritarie le posizioni di Lloyd George e di Winston Churchill, che nel 1921 era ministro delle Colonie. Erano filosionisti, convinti che “aiutare la fondazione di una democrazia in medio oriente non può che essere positivo per la Gran Bretagna”. Alla fine, però, si imposero al centro della strategia mediorientale britannica soltanto i riflessi sull’India che divenne indipendente nell’agosto del 1947 a seguito dello smembramento dell’impero inglese. La nascita di Israele non ebbe nulla a che fare con il presidio “imperialista” del petrolio arabo – per la semplice ragione che esso, fino al 1946, era marginale nel mondo – ma fu appunto condizionata negativamente dalla questione indiana. Londra guardava a Gersualemme solo ed esclusivamente calcolando gli effetti che la sua gestione del mandato in Palestina avrebbe avuto sui musulmani indiani. Un quarto circa della popolazione dell’India – che all’epoca comprendeva anche il Pakistan – era musulmano e ancora maggiore era la quota di coscritti che l’esercito inglese arruolava. Su cinquecentomila soldati indiani che combatterono sotto l’Union Jack tra il 1939 e il 1945, non meno di un terzo furono i musulmani che consideravano Gerusalemme la loro terza città sacra. Così, a mano a mano che la ribellione indiana guidata dal Partito del Congresso, dal Mahatma Ghandi e dalla Lega musulmana di Jinnah rese instabile il controllo britannico sul subcontinente, Londra abbandonò tutte le assicurazioni date ai sionisti dopo la Dichiarazione Blafour del 1917 e assunse posizioni filo arabe. Anche quando perse l’India, nel 1947, ancor più si attestò su una posizione filoaraba e antisraeliana, nel vano tentativo di difendere quel poco che le restava di potenza mondiale attorno al Mar Rosso e al canale di Suez. E’ lunghissimo l’elenco delle decisioni antisioniste prese dal governo britannico in Palestina durante tutto il mandato, a iniziare dalla decisione del funzionario incaricato dei rapporti con gli arabi – Ernest T. Richmond, notoriamente antisemita – di imporre nel maggio del 1921 Haji Amin al Husseini come nuovo muftì di Gerusalemme. Questi non era incluso nella rosa presentata dagli ulema arabi e addirittura non aveva alcun titolo teologico. Ma il suo merito, agli occhi di Richmond, era proprio la leadership della rivolta antiebraica del 1920. E successivamente della rivolta del 1937, del golpe filonazista del 1941 a Baghdad, dell’alleanza con Hitler e infine della guerra del 1948. Ma al di là dei singoli episodi ciò che rimane marcato con infamia nella storia inglese – senza alcuna autocritica collettiva – è il Libro Bianco del maggio del 1939. Soltanto due anni prima, nel 1937, la Commissione Peel aveva proposto, con la fine del mandato britannico, la creazione di un mini stato palestinese – diviso in due bantustan – un piccolo territorio di soli 25 mila chilometri quadrati e di un grande stato arabo. La proposta fu accettata da David Ben Gurion, così come dal clan palestinese dei Nashashibi e da re Abdullah di Transgiordania. L’ipotesi fu però rigettata dal Consiglio palestinese del gran muftì che scatenò una rivolta accusando gli ebrei di avere offeso la spianata delle moschee con una tecnica di mistificazioni largamente ripresa durante la recente rivolta contro le vignette danesi. Ma non furono i seimila morti palestinesi e i duemila morti ebrei di quella sommossa a far cambiare idea a Neville Chamberlain tre anni dopo. Fu di nuovo l’India. Un anno dopo Monaco era evidente che la guerra stava per scoppiare così, nel maggio 1939, in piena leva straordinaria di musulmani indiani, Chamberlain pubblicò un Libro bianco sulla Palestina che andrebbe riletto. Alla vigilia di Auschwitz egli promise tutta la Palestina allo stato arabo e negò ogni centimetro di terra allo stato ebraico polverizzando di fatto la Dichiarazione Balfour. L’unica concessione era il vincolo per lo stato di Palestina di accogliere 15 mila ebrei europei l’anno per cinque anni. “Una nuova Monaco, una nuova infamia!”, fu il commento di Winston Churchill, ma a Londra quasi nessuno protestò. Chamberlain decise di salvare soltanto 75 mila ebrei europei nell’arco di cinque anni e di consegnarne a Hitler sei milioni per i suoi campi di annientamento, eppure nessuno si indignò. La cosa incredibile fu che il gran muftì e il Consiglio palestinese rifiutarono perché non accettavano il vincolo dei 75 mila ebrei da accogliere e avevano già deciso di allearsi con Hitler. Un rifiuto e un’alleanza che spiegano come il carattere del movimento palestinese non fosse – e in larga parte non sia ancora oggi – quello di un nazionalismo territoriale, ma di un nazionalismo jihadista precursore di Hamas. Questa eredità di Chamberlain mai criticata, questa aridità pacifista, questa ossessione britannica dell’impero perduto mai elaborata e questa voluta incomprensione del carattere fondamentalista del movimento palestinese concorrono oggi a segnare le tante anime belle dell’accademismo inglese antisraeliano.
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