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Il Foglio Rassegna Stampa
31.05.2006 Quello della Bibbia non è "un Dio feroce"
David Nizza spiega perché

Testata: Il Foglio
Data: 31 maggio 2006
Pagina: 3
Autore: David Nizza
Titolo: «Un professore ebreo ci spiega perché il Dio biblico non è un Dio feroce»

Dal FOGLIO di mercoledì 24 maggio 2006:

Al direttore - Questa storia del Dio degli ebrei e del cosiddetto Vecchio Testamento, Dio di giustizia fino alla ferocia, contrapposto al Dio dei cristiani e del cosiddetto Nuovo Testamento, Dio dell’amore, di bontà e di misericordia, è una storia che deve finire, è un’invenzione, insomma un pregiudizio, nel senso etimologico del Dizionario filosofico di Voltaire: un giudizio che si dà prima di conoscere. L’enorme diffusione di questo pregiudizio si può spiegare in quanto condiviso da secoli da milioni e miliardi di credenti e non credenti. Ma non ci sono ragioni fondate di merito. Dico questo in riferimento anche alle polemiche nate sul libro di Harold Bloom, “I nomi di Dio”. Vorrei partire da un esempio. Immaginiamo un antropologo che trovi un boomerang: non sa che cosa sia, come funzioni, chi lo abbia inventato e per quali scopi… Può solo congetturare e, se è uno scienziato onesto, si limiterà ai “pare così e cosà… assomiglia a… sembra databile… Immaginiamo invece lo stesso antropologo che trovi un boomerang, ma si trovi nella fortunata situazione di vedere un’antica tribù di Maori che lo usa. La differenza è evidente. Perché questo esempio? Perché il caso degli ebrei è proprio questo. Gli ebrei non sono un popolo defunto. Nei libri di scuola compaiano brevemente in un capitoletto di storia antica accanto agli egizi e alle piramidi, poi scompaiono (qualche rara volta sono menzionati nel Medioevo a proposito di una crociata o della peste del Trecento o della cacciata dalla Spagna), per tornare a far capolino con l’affaire Dreyfus e la nascita del sionismo politico, se ne parla bene per la Shoah e, quasi sempre male, per la nascita dello stato di Israele. Naturalmente qualcuno potrebbe sostenere che questi ebrei moderni sono diversi da quelli antichi, e quindi non abbiamo nulla da imparare da loro. Questa è tra l’altro la tesi in vigore in quasi tutte le università italiane dove esiste una cattedra di ebraico: lì si insegna l’ebraico biblico e, se uno chiede dell’ebraico moderno, la risposta è: ma no, quello è israeliano! Invece un bambino israeliano delle elementari è in grado di capire perfettamente i brani biblici narrativi, come ad esempio il racconto della Creazione. Lo stesso si può dire dei testi giuridici dell’ebraismo nell’evolversi dei secoli. Certo  gli usi, i costumi, le leggi, il pensiero, il linguaggio degli ebrei si sono sviluppati, ma gli ebrei che nella storia si sono posti fuori da questa tradizione o sono scomparsi o si sono ridotti a sètte, come i Sadducei e i Caraiti. Per capire il problema è fondamentale sapere che nella tradizione ebraica non c’è solo la Bibbia, la Torà scritta, ma anche la Torà orale, cioè la linea di tradizione dei Maestri, o rabbinica (v. Deuteronomio 17, 11, il versetto fonte dell’autorità rabbinica). In altre parole: Torà scritta e Torà orale sono una Torà, la Torà, e hanno pari dignità e sacralità, in quanto derivano dalla stessa rivelazione sinaitica. Mosè ha affidato lo studio e l’osservanza della Torà alle generazioni in due forme, una scritta, detta il Pentateuco, e una orale (che circa 1500 anni dopo è stata comunque parzialmente raccolta e sistematizzata nella Mishnà e nel Talmùd). In poche parole, da quando non c’è più il Santuario di Gerusalemme né il Sinedrio, gli ebrei, negli ultimi 1800 anni si sono organizzati in una forma di tradizione ridotta, semplificata e complessa al contempo: non c’è somma autorità religiosa né politica né giuridica, ma il singolo maestro (hakhàm, rabbino) è accettato come decisore sulla base del suo sapere e del consenso di cui gode nella comunità di cui è leader. Di qui le fonti classiche dell’ebraismo tradizionale nei secoli fino a oggi, in tutti i campi, religiosi, liturgici, esegetici, filosofici, giuridici, fino alle ultime novità di

ogni generazione; per esempio, per noi contemporanei, questioni di bioetica, di deontologia, di diritto matrimoniale, di tutela dei disabili, di ridefinizione dello stato di decesso, degli espianti e dei trapianti, di utilizzo delle nuove tecnologie come i mezzi di trasporto, di comunicazione, delle scoperte scientifiche eccetera. Naturalmente nella maggior parte dei casi la gente non si pone queste problematiche, ma pone problemi di vita quotidiana o a carattere personale. Data la vastità e la complessità dell’argomento, non lo affronterò in maniera sistematica, ma mi limiterò solo a alcuni esempi, scelti tra i più frequenti e significativi. La legge del taglione. Non è mai esistita nell’ebraismo. Il famoso “Occhio per occhio, dente per dente…” (Esodo, 21, 24) viene interpretato come principio di risarcimento. Per la precisione cinque categorie di risarcimento per danni: danno, dolore, cure, degenza o convalescenza, menomazione o danno morale. Come si vede anche superficialmente, una legislazione in anticipo di millenni sulle conquiste sociali delle moderne democrazie più avanzate. La schiavitù. Mai esistita nel senso comune del termine. L’ebraismo presuppone il massimo rispetto per la persona fisica, di cui nemmeno il soggetto può disporre a piacimento, nonché per le libertà individuali. Si tratta in sostanza di una forma di contratto di lavoro, di durata massima di sei anni, o per rimborso di un debito insolubile, o per risarcimento di un danno inesigibile in moneta, o, in altri casi, sotto tutela del tribunale. La Legge prevede una vasta casistica a protezione del lavoratore (traduzione più adatta del termine éved che non schiavo) in campo familiare, di danno subito o di maltrattamento, alimentare, di riscatto eccetera. Una famosa massima rabbinica recita: “Chi si procura un servo si procura un padrone” (bPessahìm, 88b). Ripudio e poligamia. La poligamia, a parte il caso di uno (o due) dei Patriarchi e di alcuni antichi Re e pochi altri esempi relativi all’epoca biblica, non risulta fosse molto praticata; forse era più un’eccezione che la regola; quasi certamente non era più praticata almeno dall’epoca prerabbinica. Comunque è stata definitivamente dichiarata non applicabile con il decreto di Rabbénu Ghersciòm intorno al Mille E.V., accettato da tutti (tranne dagli yemeniti, cui sembra non fosse pervenuto, i quali l’hanno adottato dopo il 1948, quando furono accolti nello stato di Israele in seguito alla loro violenta espulsione dallo Yemen). Il ripudio unilaterale non esiste: occorre un processo in cui i giudici sono tenuti a valutare le ragioni di entrambi i coniugi e occorre una sentenza che sempre tutela i diritti della parte più debole, storicamente la donna e i minori. Ama il prossimo tuo come te stesso. Questo è forse l’insegnamento più celebre ma anche il più distorto o addirittura falsificato. Provate a chiedere in giro a casaccio, in qualunque ambiente e a qualunque livello culturale: chi l’ha detto? La risposta sarà: Gesù. Sembra fastidioso ammettere che questa predicazione di Gesù, che per chi scrive è Rabbì Yehoshùa ben Yossèf ha-Naggàr, cioè non il Messia, ma un Maestro, è la citazione di un duplice insegnamento ebraico, uno in positivo, l’altro in negativo. Il primo è preso letteralmente dal Levitico 19, 19. Il secondo è il famoso insegnamento di uno dei più grandi maestri dell’ebraismo, vissuto probabilmente poco prima di Rabbì Yehoshùa ben Yossèf, Hillèl, il quale, a uno straniero che gli aveva chiesto: “Insegnami tutta la Torà mentre sto su un piede solo”, rispose: “Non fare al tuo compagno quel che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torà; ora va’ e studia” (bShabbàt, 31a). Si potrebbe aggiungere la ripetizione del comandamento “Ama lo straniero come te stesso, perché stranieri foste in terra d’Egitto” (Levitico, 19, 33). Penso che il messaggio sia sufficientemente chiaro per chi voglia capire. Per finire, vorrei menzionare David Flusser. Egli sosteneva che l’unico punto di sostanziale differenza tra la predicazione di Rabbì Yehoshùa ben Yossèf e gli insegnamenti rabbinici è l’esortazione a porgere l’altra guancia. Invece, secondo l’interpretazione di Leo Levi, il porgere l’altra guancia sarebbe citazione dalle Lamentazioni di Geremia (3, 30), come invocazione di limite alle sofferenze del popolo di Israele. In ogni caso da qui ad affermare che il Dio degli ebrei è il Dio (feroce) della giustizia mentre il Dio dei cristiani è il Dio dell’amore ce ne corre, e tanto.

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