Dal FOGLIO di mercoledì 31 maggio 2006:
Roma. Semplice e potente, il discorso di Benedetto XVI ha colpito Benedetto Carucci Viterbi. Il rabbino romano che insegna esegesi biblica al Collegio rabbinico e da tre anni tiene corsi di introduzione all’Ebraismo alla Pontificia università gregoriana, è severo nel giudizio. Ne ha fatto una lettura circostanziata, l’ha trovato “interessante, complesso, di spessore notevole”. Alla fine, però, dopo varie glosse e interrogativi talmudici, ha dovuto ammettere: “Sul piano teologico, contiene un’affermazione forte, che pone fine a duemila anni di antisemitismo cristiano”. Cos’altro dice infatti il Papa di Roma quando, nel cuore del suo discorso di Auschwitz, cita le parole del Salmo e parla di “quei criminali violenti”, che “con l’annientamento di questo popolo ebraico, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno?”. Risponde rav Carucci leggendo il discorso di Ratzinger passo passo: “Il Papa riconosce che il popolo ebraico è una testimonianza del Dio che ha parlato all’uomo. E nel far questo, porta alle estreme conseguenze lo sterminio nazista, come un paganesimo esasperato, negazione del piano del divino. La negazione di Israele, insomma, è una negazione di Dio, che induce l’uomo a ergersi ad arbitro assoluto e di fatto ad arbitro dominatore. La vera morte di Dio dunque per lui non è alle spalle del nazismo, ma di fronte al nazismo. Il nazismo uccide Dio, il Papa sta dicendo che il nazismo uccide Dio attraverso il tentativo di distruzione del popolo di Israele. E’ un’altissima dichiarazione di rispetto e riconoscimento. Mette fine a una guerra durata duemila anni”. Di fronte a simili considerazioni, le divergenze e il contenzioso teologico passano in secondo piano. Certo, per Carucci, il fatto che il successore di Pietro, rappresentante di Cristo in terra, abbia citato solo ed esclusivamente l’Antico Testamento, resta un motivo di riflessione, prossimo alla perplessità. A cominciare dal silenzio di Dio, un tema costitutivo nella tradizione biblico-rabbinica. “Il primo riferimento, spiega Carucci, è un testo della Bibbia che dice ‘chi è come te fra gli dei’: si trova nella cantica del Mare, che gli ebrei cantano dopo aver traversato il Mar Rosso, quando escono dall’Egitto per andare nella Terra promessa. Quel verso, incongruente visto che per l’ebraismo non ci sono altri dei, ha subìto una rielaborazione dovuta al gioco di una quasi omografia tra le due parole, tant’è che la tradizione talmudica legge: ‘chi è come te tra i muti’. Per noi è sinonimo di grandezza. Dio viene definito come colui che si contiene, al punto da non esprimersi, da restare ammutolito di fronte alla sofferenza del popolo”. Vuol dire che Dio, che per l’Antico Testamento è innanzitutto legge, dovere, ferocia e severità, abbandona il suo popolo? “No – risponde Carucci – Vuol dire che Dio fa forza su se stesso e preferisce restare ammutolito, per non intervenire nelle vicende degli uomini, lasciando a essi piena responsabilità di fronte alla sofferenza, in quanto costitutiva dell’uomo nel mondo è una sostanziale libertà, che ovviamente ha un prezzo”. E’ questo per Carucci il nocciolo della questione del silenzio di Dio. “E’ vero che nelle fonti biblico- ebraiche citate dal Papa, e nella letteratura rabbinica che le rielabora, questo tema compare, come pure quello del nascondimento del volto di Dio, ma ciò per gli ebrei interpella innanzitutto la responsabilità umana, non quella divina. Il silenzio di Dio, in altri termini, comporta l’assoluta responsabilità dell’uomo”. Volevano strappare le nostre radici comuni “Dov’era Dio in quei giorni?” si è domandato il Papa davanti alle lapidi di Auschwitz. “Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”. E ha citato il Salmo 44, il lamento dell’Israele sofferente, quasi a suffragare l’intento di riconciliazione, ricacciando la responsabilità del male nell’orbita del paganesimo. “Quando il Papa dice che con la distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana è un fatto rilevante, che potrebbe essere interpretato in modo duplice: sostituendola con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte, mentre il silenzio di Dio che per la tradizione ebraica è un atto di forza che Dio fa su se stesso, quando decide di non mostrarsi, viene interpretata come assenza di Dio, come sopraffazione dell’uomo di Israele e di altre genti. Tant’è vero che i nazisti dicevano ‘Gott mit Uns’”. Infine, altro aspetto incomprensibile per noi cristiani, la contabilità del rancore, il rendiconto degli atti di Dio che gli ebrei da pari a pari esigono da lui: “E’ presente nella Bibbia, e si continua sin nella letteratura hassidica. Il Papa però si ferma sulla soglia quando dice non possiamo giudicare, ‘Non possiamo scrutare il segreto di Dio’. Nella tradizione rabbinica invece, la giustizia del giusto consiste proprio nel chiedere conto a Dio della sua giustizia. ‘Forse che il giudice di tutta la terra non farà giustizia? ‘Sarebbe un modo di autoprofanarti’ dice Abramo rivolgendosi a Dio alla vigilia della distruzione di Sodoma, quando basterebbero dieci giusti per risparmiarne tutti gli abitanti. Il baratro di Auschwitz non ha avuto di fronte uomini giusti a sufficienza per fare lo stesso. Nessuno vuole imputare responsabilità collettive, resta però la domanda sul silenzio umano di fronte al silenzio di Dio. Ma esiste anche un altro versante in cui, dopo Auschwitz, si è mantenuta sino all’estremo limite la fede in Dio”.
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