Giuliana Sgrena scopre i danni che il terrorismo provoca ai palestinesi ma continua a fingere che il terrorismo non esista
Testata: Il Manifesto Data: 26 maggio 2006 Pagina: 20 Autore: Giuliana Sgrena Titolo: «Palestina, il lavoro è una chimera»
Giuliana Sgrena, che ancora dovrebbe spiegare agli italiani quanto é loro costata la sua imprudenza nello scenario di guerra iracheno, dedica sul MANIFESTO del 26 maggio 2006 un lungo articolo sulla crisi dell'occupazione nei territori palestinesi, provocata dal blocco delle frontiere con Israele. Non ricorda i motivi di questo blocco, ovvero gli attentati terroristici. Allo stesso modo, ricordando la violenta propaganda islamista di Hamas e i rischi che comporta per la società palestinese, tace sul fatto che un 'analoga propaganda totalitaria di odio (proveniente anche dal "laico" Fatah) ha alimentato la guerra terroristica contro i civili israeliani. Nel silenzio complice della sinistra filopalestinese. Ecco il testo:
La dignità di un popolo si coglie nei piccoli gesti. Come quando, al termine di una visita all'Hisham's palace, le rovine del palazzo dedicato al califfo Omayyade a Jerico, la guida che ci illustra con dovizie di particolari il sito archeologico e che non prende lo stipendio da almeno due mesi rifiuta persino un piccolo contributo per il suo prezioso lavoro. Di fronte al boicottaggio internazionale, la frustrazione maggiore dei palestinesi è quella di dover dipendere sostanzialmente dagli aiuti esterni. «Dobbiamo trovare il modo di renderci indipendenti, solo così ci potremo sentire veramente liberi», sostiene Fatemah Botmeh, incaricata della formazione presso il ministero delle donne. La sua aspirazione è condivisa da molti palestinesi. Ma la sua realizzazione non è semplice. «Non ci sarà uno sviluppo in Palestina finché ci sarà l'occupazione», sostiene Suad Amiry, scrittrice e architetta che dirige l'ong Riwaq impegnata nel recupero e la salvaguardia dei beni architettonici palestinesi. «Con tutta la produzione di ortaggi e frutta che abbiamo, quando vado al mercato a fare la spesa trovo solo prodotti israeliani e non è facile boicottarli e sostituirli con quelli palestinesi. Che peraltro non possono essere esportati perché devono passare attraverso Israele, così come le importazioni. Siamo tutti rinchiusi in un grande campo profughi», conclude Suad Amiry. Del resto, è l'israeliano Benvenisti a sostenere che «Israele ha bisogno di occupare i territori palestinesi per continuare a confiscare le terre», conclude Suad. La Palestina è un mercato israeliano Non solo. «I territori palestinesi costituiscono per Israele un mercato acquisito al quale non rinuncerà facilmente: l'unica fabbrica di latticini palestinese di Hebron è costretta ad importare il latte da Israele» afferma Suhil Khader, responsabile internazionale del Palestine general federation of trade unions, il sindacato palestinese. Prima, almeno 150.000 lavoratori (50.000 da Gaza e 100.000 dalla West bank) potevano andare a lavorare in Israele, ma dall'inizio della seconda Intifada le frontiere sono state chiuse». «Ieri la radio ha annunciato, aggiunge Mohammed Barakat, ex sindacalista e vecchio compagno di lotte di Suhil, che il governo israeliano permetterà l'ingresso in Israele di 8.000 lavoratori palestinesi, ma dovranno appartenere a particolari fasce di età e soprattutto subire un controllo minuzioso del loro passato». Il resto della manodopera viene ormai importata da altri paesi (dall'Europa dell'est, soprattutto Romania, e dalla Turchia per le costruzioni, mentre dalla Thailandia provengono i lavoratori impegnati nell'agricoltura). Una soluzione non vantaggiosa per Israele, perché mentre i palestinesi pagavano molte tasse e non godevano dei servizi visto che la sera tornavano a casa, i nuovi immigrati vivono in Israele e quindi hanno bisogno di case e assistenza. E soprattutto, cosa farà Israele quando non gli serviranno più? «Non potrà certo chiudere i check point come fa con i palestinesi», sostiene Mohammed. Disoccupazione alle stelle «Con la chiusura di Israele la disoccupazione a Gaza ha raggiunto il 75 per cento, nella West bank il 47 per cento», precisa Suhil Khader. In Palestina non ci sono fabbriche e quelle poche (a Nablus e Hebron) sono a conduzione familiare. Le costruzioni in mancanza di soldi sono sostanzialmente bloccate - si vedono gli scheletri di grandi edifici abbandonati - e i negozi sono quasi tutti chiusi, nell'agricoltura sono impegnate in gran parte donne. Un lavoro, quello agricolo, abbandonato dai maschi quando avevano la possibilità di andare a lavorare in Israele o altrove. Lavorare la terra è poco redditizio e sempre più difficile, con le continue confische operate dagli israeliani che con la costruzione del muro si sono annessi un'altra fetta della Cisgiordania (il 22 per cento del territorio, l'80 per cento erano terre coltivabili). Il muro spesso ha anche separato le case dei proprietari dai loro terreni costringendoli a percorrere chilometri per arrivare al loro appezzamento da coltivare o, se non ce la fanno, ad abbandonare la terra. Tuttavia, la situazione sempre più drammatica, con famiglie ridotte letteralmente alla fame, rende qualsiasi fazzoletto di terra prezioso. E altrettanto prezioso diventa il lavoro avviato già dal 2002 dalla Rural women's development society (Rwds), una ong che si occupa delle donne che vivono nelle zone rurali, i cui problemi si sono accentuati con il deterioramento della situazione causato dall'impossibilità di muoversi a causa dei check poit, del muro, etc. La sede principale della ong si trova a Ramallah, dove è ospitata nel piano sotterraneo del grande edificio dei Parc (Palestinian agricultural relief committees), ai quali è affiliata. In questi anni l'organizzazione si è allargata a macchia d'olio: sono 12.000 le donne entrate a far parte di club sparsi in tutta la Palestina, Gaza compresa. «Le donne sono molto interessate ad organizzarsi perché, pur essendo il 60 per cento delle lavoratrici agricole, il loro lavoro non è riconosciuto visto che oltre a coltivare i campi sono costrette a sbrigare anche i lavori di casa e a prendersi cura dei figli: un doppio lavoro invisibile», sostiene Wafa abu Zaid, coordinatrice dei progetti. I bisogni di base E come nascono i progetti? «Prima individuiamo le necessità e poi realizziamo i progetti», risponde. Se l'obiettivo è «migliorare la conoscenza e l'abilità delle donne rurali», le prime necessità espresse riguardavano i bisogni di base come la nutrizione, la creazione di posti di lavoro e la possibilità di guadagni per le giovani generazioni. Per questo, spiega Wafa, «abbiamo concentrato i primi fondi ricevuti dai donatori (cooperazione spagnola e francese, ong Usa, etc.) sui progetti di emergenza (a cominciare dalla distribuzione di cibo) e per la coltivazione degli orti di casa, fornendo strumenti e sementi, oltre a organizzare forme di microcredito». Questo non è l'unico obiettivo dell'organizzazione: occorre dare alle donne l'opportunità di giocare un ruolo nella loro comunità. E siccome molte donne non hanno avuto la possibilità di studiare o hanno dovuto interrompere gli studi, la Rwds organizza corsi di alfabetizzazione per insegnare a leggere e scrivere e corsi di insegnamento a un livello più elevato per permettere l'accesso all'università. Accanto a questo, c'è un lavoro di empowerment che ha permesso alle donne che vivono in ambienti rurali di partecipare alle elezioni e di essere elette nelle amministrazioni locali. Due donne dell'associazione erano anche candidate alle legislative ma non sono state elette. Soprattutto, sostiene Wafa, è importante dare alle donne la consapevolezza dei propri diritti e individuare i mezzi per ottenerne il riconoscimento. Il club del microcredito A Jerico abbiamo incontrato alcune donne di un club della Rwds impegnate soprattutto nell'area del microcredito. Una di loro si lamentava per la mole di lavoro domestico dovuto soprattutto al numero dei figli: «E' Fatah che ci ha imposto di fare tanti figli, per questo ho votato Hamas», dice. Quando le facciamo notare che su questo punto forse non c'è differenza tra i due rivali, lei taglia corto: «vuol dire che la prossima volta cambierò ancora». E' un lavoro, quello della Rural Women's development society (e di molti altri centri di donne), a stretto contatto con i bisogni delle comunità, un impegno che invece è stato abbandonato dai partiti di sinistra che anche per questo sono stati penalizzati nelle ultime elezioni. «Non hanno più contatto con le comunità, non fanno più il lavoro che facevamo noi comunisti negli anni Ottanta, quando eravamo ancora clandestini», dice Mohammad Barakat. Abbiamo girato l'accusa a uno dei due deputati eletti dalla lista Badil, il comunista Bassam al Salhi. «Purtroppo è vero, molti errori sono stati commessi dalla sinistra che aveva già subito il contraccolpo del collasso dell'Urss. Poi, dopo gli accordi di Oslo, si è concentrata sull'Anp, e non ha più svolto un un lavoro continuativo con la base. Inoltre, la sinistra non ha saputo contrastare il sistema basato sulla corruzione e il clientelismo. La sinistra si è dedicata più ad agitare slogan che non a lavorare, invece, sulle questioni sociali e della democrazia», ammette il deputato. Autostima e speranza «Dobbiamo tornare ad avere fiducia in noi stessi, nei nostri mezzi, nelle nostre comunità e non dipendere solo dall'esterno. Se si perde la speranza ci si affida a Dio e poi si vota Hamas», sostiene Fadwa Khader, candidata cristiana di Gerusalemme che però non è stata eletta e, dopo la campagna elettorale, è tornata a dirigere l'associazione delle donne rurali. Per ora gli islamisti non hanno una presenza in campo rurale, limitano la loro attività alle moschee e se si occupano di donne è solo per insegnare loro come diventare brave mogli. Approfittando della distrazione di Fatah, impegnata a dimostrare la propria fede con la costruzione di moschee invece che di scuole e ospedali, gli islamisti hanno occupato un settore strategico per fare proselitismo, quello dell'istruzione. «La maggior parte degli insegnanti sono militanti di Hamas», sostiene Um Qais che lavora al ministero dell'educazione a Ramallah. Insegnanti molto attivi che attraverso gli studenti cercano di raggiungere anche le loro famiglie. E in questo caso il discorso si fa aggressivo. Nelle scuole di Hebron gli insegnanti hanno cominciato a minacciare gli studenti che ascoltano la musica, guardano la televisione o leggono riviste che non rientrano nell'ordine islamico. E per essere più convincenti hanno distribuito Cd da mostrare anche ai genitori in cui vengono illustrate le pene dell'inferno per i trasgressori. «Mio nipote è terrorizzato, non vuole più andare a scuola», ci racconta Sara, una sindacalista che incontriamo in un centro di donne a Hebron dove è in corso una riunione per decidere come far fronte alle minacce ricevute dai gruppi islamisti. Lo spettro algerino La Palestina non sarà l'Algeria, come dicono molti palestinesi, ma spesso il pensiero torna ai ricordi delle esperienze vissute ad Algeri negli anni Novanta. Um Qais è d'accordo e aggiunge che Hamas, come il Fis, usa le moschee per la propaganda più violenta: «Venerdì scorso ho sentito il sermone del presidente del parlamento, il «moderato» Aziz Dweik, che dalla vicina moschea prometteva ai fedeli l'istituzione di un califfato in Palestina». Le premesse non sono certo di buon auspicio.
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