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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Christian Rocca - Cambiare regime 24/05/2006

Christian Rocca
Cambiare regime
Einaudi

Un po' come Benedetto Croce, Christian Rocca considera la storia un processo di graduale affermazione della libertà umana. Un moto garantito dall'espansione della democrazia e dall'ascesa della potenza che incarna al meglio le idee liberali, gli Stati Uniti d'America.
È una filosofia di matrice illuminista, fiduciosa nella capacità degli uomini di autodeterminarsi e migliorare la propria vita, superando pregiudizi, fanatismi, istinti di sopraffazione e di sottomissione. Dovrebbe essere in teoria, secondo Rocca, la bandiera della sinistra democratica. Invece, poiché a sposarla dopo l'11 settembre è stato il conservatore George W. Bush, i leader progressisti, a parte Tony Blair, l'hanno rinnegata, fino al punto di schierarsi, deliberatamente o nei fatti, dalla parte di despoti brutali e terroristi sanguinari.
Il saggio di Rocca Cambiare regime, edito da Einaudi, denuncia dunque il tradimento consumato dalla sinistra (con importanti eccezioni quali Paul Berman, Christopher Hitchens, Adam Michnik, Emma Bonino) nei riguardi dei suoi stessi ideali. L'autore, firma del Foglio di Giuliano Ferrara, ha buon gioco nel flagellare la cecità del pacifismo, l'indulgenza terzomondista verso i tiranni, le contraddizioni di chi approvò la «guerra umanitaria» in Kosovo contro Slobodan Milosevic, ma ha poi condannato l'intervento in Iraq contro l'assai più feroce Saddam Hussein.
Il libro contiene qualche forzatura, per esempio sui rapporti tra Mosca e il Pci, oppure sulla politica di Reagan in America Latina. Ma finché rimane sul piano dei princìpi, l'analisi di Rocca è ineccepibile. Meno convincente appare il suo ottimismo sul modo in cui Bush ha cercato di calare quegli ideali nella realtà intricata e limacciosa delle relazioni internazionali. Rocca ha ragione quando osserva che l'11 settembre ha segnato la bancarotta di una politica disposta a tollerare regimi oppressivi purché nominalmente amici dell'Occidente. Basta pensare che Al Qaeda, fino a quel momento, aveva trovato connivenze soprattutto in due Paesi, Arabia Saudita e Pakistan, che pure figuravano tra i più fidi alleati di Washington. Proprio per questo però è difficile pensare che, una volta eliminato il santuario di Osama Bin Laden in Afghanistan, la priorità fosse invadere l'Iraq, dove le difficoltà si sono rivelate ben maggiori del previsto.
Si sperava che, deposto Saddam, il contagio iracheno avrebbe destabilizzato il regime dell'Iran. Ma il successo di Ahmadinejad sembra smentire la previsione: c'è chi teme anzi che la prevalenza della componente maggioritaria sciita a Bagdad finisca per rafforzare la posizione di Teheran, proprio mentre gli ayatollah puntano alla bomba atomica. Lo stesso Iraq, che Rocca esalta come democrazia nascente, per altri versi sembra un Paese sull'orlo della disgregazione e della guerra civile, impedite solo dalla massiccia presenza delle truppe angloamericane, che peraltro continuano a registrare perdite ingenti. Di certo l'alta affluenza al voto degli iracheni è un elemento incoraggiante, ma non è facile capire se a determinarla sia stato un desiderio di partecipazione o un arroccamento della popolazione sulle diverse identità etnico-religiose. I magri risultati della lista interconfessionale di Iyad Allawi, l'uomo che gli americani avevano a suo tempo scelto come premier, sembra deporre a favore della seconda ipotesi.
Più in generale, è evidente che far cadere i dittatori non basta a prosciugare il mare dove nuotano gli squali jihadisti. Se non altro perché in vari Paesi, dalla Libia al Pakistan passando per la Siria, l'opposizione più agguerrita agli attuali regimi polizieschi e corrotti è costituita appunto dai fondamentalisti.
Del resto l'operazione compiuta in Iraq, con i suoi immensi costi umani ed economici, non è ripetibile a breve termine. Quindi l'auspicabile diffusione della democrazia dovrà seguire altre strade. Magari prestando più attenzione alla cause per cui le correnti liberticide nazionaliste o teocratiche, accomunate da Rocca sotto l'etichetta un po' propagandistica di «fascismo islamico», sono tanto forti nel mondo arabo. Per esempio, se i palestinesi si sono di recente trovati a dover scegliere, nell'urna elettorale, tra Fatah e Hamas («entrambi movimenti totalitari e terroristi», scrive Rocca), forse qualche responsabilità può essere attribuita anche alla strategia di esproprio e colonizzazione seguita da Israele per decenni nei territori occupati con la guerra del 1967. Una condotta che il ritiro da Gaza ha corretto solo in parte.
In realtà, come fa notare Rocca, la dottrina Bush ha anche un risvolto pacifico, che si esplica in varie iniziative per sostenere le forze liberali e laiche in Medio Oriente. Finora però la gran massa delle risorse è stata impiegata per scopi militari. Rinunciare all'uso delle armi ovviamente non si può. Ma un riequilibrio non guasterebbe.

Antonio Carioti
dal Corriere della Sera del 24 maggio 2006


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