Non é il momento di andarcene dall'Iraq l'analisi di Christian Rocca
Testata: Il Foglio Data: 23 maggio 2006 Pagina: 1 Autore: Christian Rocca Titolo: «Per Christian Rocca non è ora di ritirarsi dall’Iraq. Stiamo vincendo»
Dal FOGLIO di martedì 23 maggio 2006:
Il centrosinistra ritirerà le truppe italiane dall’Iraq, perché così ha promesso ai suoi elettori. Bene. I programmi elettorali si rispettano, ma sarebbe opportuno che la maggioranza li confrontasse con la realtà delle cose prima di prendere decisioni affrettate che, peraltro, per come sono state immaginate sembrano burocratiche, senza il grande clamore politico che gli seppe dare Zapatero. Punto primo: se il nuovo governo iracheno, il primo pienamente democratico del mondo arabo, ci chiedesse di restare per assisterlo nel processo di consolidamento della giovane democrazia, Palazzo Chigi chiuderà un occhio e negherà l’aiuto? Punto secondo: il 15 giugno il Consiglio di sicurezza, come da risoluzione Onu, ascolterà le richieste del nuovo governo iracheno appena formatosi e poi deciderà se estendere o no il mandato multinazionale in Iraq, in scadenza alla fine del 2006. Se la nuova risoluzione Onu, come è probabile, inviterà ancora una volta i paesi membri a inviare truppe in Iraq, il governo italiano volterà di nuovo le spalle alle Nazioni Unite, dopo averle tanto invocate? La decisione di ritirare o di lasciare le truppe in Iraq, se si ha a cuore il futuro democratico del popolo iracheno, non dovrebbe essere ideologica né partigiana né influenzata da ciò che i singoli schieramenti pensavano nel 2003, prima che Bush, il premier laburista inglese, il presidente socialista polacco e una ventina di capi di governo avviarono Iraqi Freedom. La scelta dovrebbe rispondere al quesito su quale sia la soluzione migliore per il futuro dell’Iraq, per la democrazia araba e per la nostra sicurezza: aiutare gli iracheni o levare le tende? La risposta, ovviamente, non possiamo darla noi, deve arrivare da chi è in prima linea nel tentativo di superare 35 anni di feroce dittatura, cioè da quegli iracheni accerchiati dai guerrasantieri e dai nostalgici del dittatore che dalla caduta di Saddam a oggi hanno ucciso 23 mila persone tra civili, pubblici ufficiali e poliziotti del nuovo Iraq. Il partito italiano del ritiro questa domanda non se la pone, anzi la scarta, al contrario per esempio di quanto fanno in America i Democratici. Un anno fa, il Senato americano ha votato il rifinanziamento della missione in Iraq e il risultato è stato inequivocabile: cento a zero, cento senatori su cento, di destra e di sinistra, hanno detto di sì senza distinguo, astensioni e voti contrari agli 82 miliardi di dollari chiesti dalla Casa Bianca per le missioni mediorientali. Questo da noi non succede. Il partito del ritiro non si pone il problema di che cosa lascia ritirandosi. Non vuole ascoltare le richieste irachene e non legge le risoluzioni Onu. Spiega, al contrario, che la presenza di truppe straniere (e per straniere intende quelle occidentali, mai quelle jihadiste che martorizzano gli iracheni) sia la causa scatenante le stragi e il caos. E’ così? Gli iracheni, attraverso i loro rappresentanti, dicono di no, dicono che non è così. Continuano a chiederci di rimanere, buon ultimo il governatore di Nassiriyah. Certo vogliono intravedere la fine dell’occupazione militare, ma sempre meno di quanto lo desiderino Bush e Blair. L’unica via d’uscita è quella di addestrare le truppe irachene, oggi già al comando nel 60 per cento del paese, e ridurre le truppe occidentali. Una presenza ridotta servirà comunque a evitare che Siria, Iran e Turchia pretendano di prendersi le province sunnite, i luoghi sacri sciiti e i pozzi del Kurdistan a cui non hanno mai rinunciato. Le notizie di stragi jihadiste e i ripetuti allarmi su una guerra civile che non c’è dovrebbero far concludere che la nostra presenza in Iraq sia ancora necessaria. In Iraq stiamo vincendo la guerra, non la stiamo perdendo, hanno scritto William Shawcross sul Sunday Times e Amir Taheri su Commentary. I nostalgici del dittatore e i jihadisti – malgrado la loro potenza di fuoco e l’aiuto delle dittature vicine – non sono riusciti a fermare il processo politico. Stragi, uccisioni mirate e minacce hanno provocato dolore e vittime, ma la partecipazione politica, sociale e tribale non è diminuita, anzi è aumentata, fino a farvi rientrare anche la parte sunnita. La barbarie fa notizia, al contrario dei noiosi dati forniti dal Fondo monetario secondo cui nel 2004, ultimo anno certificato, il pil iracheno è più che raddoppiato rispetto all’anno precedente, le esportazioni aumentate di 3 miliardi di dollari, l’inflazione passata dal 70 al 25 per cento e la disoccupazione dal 60 al 30. Uno degli indicatori del fatto che stiamo vincendo è la mancanza di profughi, al contrario di quanto è successo in tutte le crisi irachene degli ultimi 40 anni. Sono stati chiusi i campi rifugiati nei paesi confinanti e oltre un milione di espatriati sono tornati a casa. L’Iraq non è un fallimento né un disastro né un altro Vietnam. E’ un problema enorme, come capita ogni volta che nasce qualcosa di nuovo. Ma da quando – scrive Taheri – le difficoltà sono una buona ragione per decretare il neonato indegno di vivere?
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