Gli arabi non vanno assolutamente "umiliati", perché sono bambini permalosi. Inoltre bisogna capire la natura "obliqua" del loro linguaggio. Dicono che vogliono distruggere Israele, ma può darsi che in realtà, a leggere tra le righe, la stiano riconoscendo.
Da tali premesse segue inevitabilmente il programma di politica estera che Paola Caridi, con la consulenza di intellettuali arabi, formula per il governo Prodi.
Urgono decisioni coraggiose, simile a quella presa nella prima Repubblica di avviare il dialogo con Yasser Arafat che "allora era considerato terrorista".
E che terrorista era e rimase, aggiungiamo noi.
Il fallimento della politica europea che, riconoscendo l'Olp e favorendo la nascita di un'entità controllata dai terroristi, non ha portato alla pace, ma ad un'aggressione terroristica senza precedenti contro Israele, non é bastato.
Riproviamoci, suggerisce la Caridi, magari riconoscendo Hamas, con "il coraggio dello scandalo".
Sul fatto che in tutto questo ci sia qualcosa di scandaloso, siamo d'accordo.
E ci chiediamo, sarebbe questo il "riformismo" ?
Ecco il testo:
Silvio Berlusconi, tra gli arabi, non era decisamente amato. I più miti lo consideravano un «esponente della destra estrema, con posizioni simili all’amministrazione Bush». I più veraci, un “burattino” del presidente americano: motivo per il quale, piuttosto che parlare con Roma, molti arabi hanno preferito, in questi cinque anni, andare alla fonte. E parlare direttamente con Washington. Gli arabi, si sa, hanno una memoria lunga. E a Berlusconi non hanno perdonato frasi per loro umilianti. Come quella, la più famosa, dell’autunno del 2001, quando a Berlino l’allora presidente del consiglio italiano parlò di una presunta superiorità della civiltà occidentale. Per quelle parole, il segretario generale della Lega Araba non ha più incontrato Berlusconi. E per quelle parole di Berlusconi, all’indomani del 9 aprile, quasi tutti - tra Medio Oriente e Nord Africa - dicono chiaro e tondo di aver tirato un sospiro di sollievo alla vittoria del centrosinistra. Ragione per cui, dal centrosinistra, si attendono parecchio. Non solo il ritiro delle truppe dall’Iraq.
Quello iracheno, a dire il vero, è solo il lato della politica araba che va sotto i riflettori. E che l’opinione pubblica araba vede come il buon inizio di un nuovo governo. Una sorta di risarcimento per un «errore» compiuto in precedenza, e una ulteriore spinta - come fu considerata a suo tempo quella del governo spagnolo a guida Zapatero - perché altri paesi arrivati a dar man forte alla coalizione angloamericana rivedano la loro posizione. L’Iraq, comunque, rimane solo il biglietto d’ingresso in un teatro in cui la rappresentazione è molto più complessa. E c’è chi addirittura pensa che il ritiro da Nassirya non cambierà molto per l’immagine dell’Italia. Perché, per cambiarla, è ormai troppo tardi.
A dirlo non sono le frange estremiste dello spettro politico. A dirlo sono analisti seri, come Mahdi Abdel Hady, uno dei più acuti analisti palestinesi, direttore del think tank gerosolimitano Passia. Il problema è che «l’opinione pubblica palestinese, per esempio, non distingue più tra italiani, inglesi, francesi, danesi o spagnoli. Tutti sono europei, e gli europei sono quelli che hanno bloccato i fondi all’Autorità Nazionale Palestinese». L’Italia, insomma, è entrata a tutti gli effetti in Europa, anche per l’immaginario palestinese. E questo, in un certo senso, ha posto fine alla tanto decantata sonderweg italiana, a quello status speciale su cui ci siamo sempre crogiolati e di cui, in certi periodi, avevamo anche goduto i frutti. Come dopo la nostra missione dei nostri bersaglieri a Beirut. Soprattutto nel mondo arabo, e soprattutto nei tempi in cui - a dettare le linee guida della politica estera mediterranea - c’era uomini come Giulio Andreotti e Bettino Craxi. I quali, a loro volta, avevano trovato un terreno fertile, dissodato da uomini come Enrico Mattei e Giorgio La Pira.
Quel tempo è passato, dicono alcuni come Abdel Hady, perché «i palestinesi hanno la testa affollata delle difficoltà e delle sofferenze del presente». Quel tempo, dice lo stesso analista, potrebbe tornare. Se di quel tempo si riscoprisse il coraggio e la forza di scelte difficili. A ritornare alla mente, è per esempio la complicata trama diplomatica che ebbe come interlocutore uno come Yasser Arafat considerato, vent’anni fa, un terrorista. Con cui, però, gli italiani parlarono nell’esilio di Tunisi, tanto da porre le basi per la modifica dello statuto dell’Olp e il riconoscimento di Israele. «Perché, dunque, l’Italia non parla con Hamas? In fondo, anche vent’anni fa parlare con Arafat era una scelta controcorrente». Il coraggio dello «scandalo», insomma, è quello che si chiede al governo Prodi. E, assieme, una maggiore attenzione ai linguaggi diversi che le culture adottano. Un arabo non si deve umiliare, mai, sa bene chi conosce questa gente dalle grandi aperture e dalle repentine chiusure. Un arabo può dire cose, come il riconoscimento di Israele, non seguendo la filologica richiesta degli avversari, ma attraverso il sottile gioco del riconoscimento indiretto e implicito. Gli italiani, si dice nell’area, dovrebbero ritrovare quella capacità di intendere la cultura araba e di tradurla in Occidente.
C’è, però, chi va oltre. E spera che il governo Prodi non guardi sono ai governi arabi, come interlocutori. Ma che vada oltre, e segua quella marea montante che - soprattutto dalla primavera dello scorso anno - chiede una seria riforma democratica nel mondo arabo. Niente di eterodiretto, certo, come cerca di fare la Grande Iniziativa americana. Quanto piuttosto l’attenzione verso movimenti di opposizione a regimi che non riescono a riformare se stessi. Il ruolo dell’Italia a guida Prodi, insomma, potrebbe essere quella di «esercitare una seria e reale pressione sui governi per portare avanti la riforma», dice Hassan Nafaa, professore alla Cairo University, esperto di relazioni internazionali. Un sostegno che, per Nafaa, non può prescindere dal supporto al «dialogo per integrare i movimenti di massa islamisti, ivi compresi i Fratelli musulmani egiziani, dentro il gioco politico».
Una richiesta, questa, che non va certo in linea con quanto molti governi arabi chiederanno a Roma, nel ripensamento dei rapporti bilaterali dopo il cambio alla Farnesina. Non vedere le spinte che provengono dalla società civile araba, da settori importanti delle nuove generazioni, da tutti i rami delle opposizioni (comprese quelle liberal e nazionaliste) vorrebbe dire fare una politica di retroguardia. E ritrovarsi tra poco tempo, a dover gestire situazioni di crisi all’interno di alcuni paesi determinanti nel Mediterraneo, di cui non si sono volute cogliere le avvisaglie. La domanda pressante e appassionata, lungo la costa sud del Mediterraneo, è di indossare altri occhiali per osservare quanto sta succedendo. Occhiali che dissolvano gli stereotipi e sappiano leggere nel cuore delle capitali arabe, delle nuove intellighentsjie, delle borghesie così come delle masse di diseredati.
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