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Europa Rassegna Stampa
23.05.2006 Un quotidiano antisraeliano
é quello della Margherita

Testata: Europa
Data: 23 maggio 2006
Pagina: 3
Autore: Maurizio Debanne - Pietro Montanari
Titolo: «Il»

La Margherita dovrebbe essere la componente filo-atlantica e in parte filoisraeliana dell'Unione, ma la lettura del quotidiano di partito, EUROPA, smentisce quasi quotidianamente quest'idea.
Martedì 23 maggio Maurizio Debanne attacca l'"unilateralismo" israeliano, senza cercare di capirne le ragioni (Hamas rifiuta l'esistenza di Israele, Abu Mazen appare  debole e incapace di imporsi).
Ecco il testo:

Come Ariel Sharon, Ehud Olmert non ha mai nascosto di preferire un negoziato diretto con Washington piuttosto che con Ramallah. L’ascesa democratica al potere di Hamas in Palestina non ha fatto che rafforzare questa visione, nata dalla considerazione che se dall’altra parte non esiste un partner con cui dialogare tanto meglio condurre il negoziato con gli americani con il probabile risultato di dover fare concessioni meno dolorose. Su queste basi, secondo l’entourage di Olmert, la road map resta una pia aspirazione.
Ma in definitiva, una perdita di tempo. «Aspetteremo un partner palestinese un mese, tre mesi, forse anche sei, poi prenderemo in pugno il nostro destino », ha avvertito di recente Olmert. Con questo spirito il premier israeliano illustrerà all’amministrazione Bush il suo piano di convergenza già avvallato dagli israeliani nelle ultime elezioni legislative. Il progetto, le cui linee guida erano state tracciate da Ariel Sharon sulla scia del ritiro da Gaza, prevede lo smantellamento di buona parte delle colonie ebraiche in Cisgiordania, il parallelo rafforzamento di alcuni grandi gruppi di insediamenti vicino a Gerusalemme che Israele vorrebbe annettere in futuro, e la fissazione delle frontiere definitive a est dello stato ebraico entro il 2010.
Questo dopo un negoziato con i palestinesi, se possibile, altrimenti con misure unilaterali, come fece Sharon l’anno scorso con lo storico ritiro da Gaza.
L’ipotesi di mosse unilaterali si scontra però con la forte opposizione non solo dei palestinesi, ma anche di buona parte della comunità internazionale, in particolare dell’Europa. Tuttavia anche dagli Usa sono venute raccomandazioni di prudenza. La politica mediorientale non ha certo garantito a Bush grandi soddisfazioni, e la sua popolarità in casa è in caduta libera. In queste condizioni, secondo alcuni analisti, è difficile immaginarsi che il presidente degli Stati Uniti intenda sbilanciarsi oltre misura per assecondare i progetti di Olmert che, tra l’altro, hanno sia un prezzo politico elevato (il riconoscimento statunitense della annessione ad Israele di alcune zone omogenee di insediamento nella West Bank) sia costi economici: ossia un aiuto finanziario straordinario per aiutare Israele a riassorbire decine di migliaia di coloni che dovranno abbandonare le loro case in Cisgiordania.
Resta dunque aperta la spinosa questione dei confini. Se a delimitarli sarà l’attuale tracciato del muro di separazione Israele continuerà a vivere lungo profili precari. Sul campo palestinese sono in molti a porsi questa domanda: se il piano di Olmert è il massimo che possiamo ottenere perché negoziare? Per aggirare l’impasse gli Usa potrebbero chiedere al governo Hamas il riconoscimento di Israele e la cessazione delle violenze garantendo che i palestinesi raggiungeranno un accordo di pace più vantaggioso rispetto a uno di tipo unilaterale. Nel frattempo, dato per scontato che l’amministrazione Bush non dialogherà con Hamas fino a che non adeguerà il proprio registro, rimane comunque da evitare una crisi finanziaria dell’Anp. Martin Indyx, direttore del centro Saban per le politiche nel Medio Oriente della Brookings Institution, uno dei serbatoi di cervelli di Washington, suggerisce di fare confluire tutti i fondi destinati alla Palestina (compresi i 450 milioni di dollari stanziati dal congresso statunitense e ora bloccati) in trust funds gestiti dall’Onu o da ong a fini umanitari.
Indyk, un ex ambasciatore degli Usa in Israele, osserva come una situazione umanitaria disastrosa nei Territori sia poi fonte di esasperazione ed estremismo. Per Indyk, il ruolo degli Stati Uniti in questo momento, quando in Medio Oriente si vedono solo iniziative unilaterali, si può, dunque, articolare lungo queste linee: favorire la credibilità della presidenza palestinese di Abu Mazen, in modo che sia riconosciuto come il vero   leader e interlocutore palestinese. Stimolare un dialogo tra le due fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, «per fare entrare in qualche modo Hamas nel gioco politico». Infine, per i progetti di Olmert di ritiro unilaterale, lavorare perché le mosse di Israele avvengano nell’ambito di quanto stabilito dalla risoluzione 242 delle Nazioni Unite.
Il nuovo clima Olmert sembra averlo avvertito e per questo si presenta a Washington con due misure fresche di approvazione: la ripresa dei contatti con Abu Mazen e la decisione di smantellare dodici colonie illegali nella West Bank. Dopo diversi tentennamenti, Olmert ha dato il via libera a un primo incontro ad alto livello fra Shimon Peres e Tzipi Livni e il presidente palestinese a Sharm el Sheikh, nel Sinai egiziano, in margine alla conferenza regionale del Forum economico mondiale.
È una piccola vittoria politica del ministro della difesa Amir Peretz, il “primo ministro dei territori palestinesi” poiché responsabile del loro controllo.
Da tempo sostiene che Israele deve fare «uno sforzo vero, sincero, serio, per raggiungere un accordo con i palestinesi» prima di prendere una eventuale decisione unilaterale sul piano di convergenza del premier. Anche Shimon Peres vedrebbe con favore un colloquio Olmert-Abu Mazen.
Lo stesso concetto si sono sentiti ripetere da Condoleeza Rice gli emissari di Olmert, il capo di gabinetto Yoram Turbowicz, il consigliere Dov Weiglass e il consigliere speciale per la politica estera Shalom Turjeman. Infatti, già da alcuni giorni a Washington, s'intrecciano le consultazioni su come affrontare la nuova fase che si è aperta in Medio Oriente dopo il ciclo elettorale.
Khalil Shikaki, direttore del Centro palestinese per le ricerche politiche, sostiene che la proposta di una conferenza internazionale da Abu Mazen «sarebbe importante» perché capace di «mettere tutti insieme». «La maggior parte dei palestinesi credono che la politica americana in questa fase sia mirata al collasso dei servizi interni palestinesi in modo da distruggere Hamas. Ma se gli Usa vogliono davvero moderare l’azione di Hamas, dovrebbero rispondere alla chiamata di Abu Mazen», puntualizza Shikaki.

Pietro Montanari scova un saggio di un analista americano che propone la trattativa  (senza precondizioni, nemmeno quelle minime poste dalla comunità internazionale).
Esilarante il passaggio nel quale Chomsky, noto sostenitore di Hezbollah, viene definito un "liberal progressista" critico della strategia di esportazione della democrazia, ma sostanzialmente allineato all'"ortodossia" riguardo ad Hamas. Per contro, secondo Montanari la tesi  del dialogo con Hamas e dell'accettazione dei risultati della "democrazia palestienese" sarebbe "ovvia" anche per un "orecchio israeliano". A tal proposito é bene ricordare che in realtà dal governo e da osservatori indipendenti israeliani sono venute serie critiche agli Stati Uniti per la decisione accettare la partecipazione di Hamas alle elezioni palestinesi
Ecco il testo:


Marcia indietro sul “Broader Middle East”? Molte voci americane sembrerebbero confermare un radicale ripensamento della politica statunitense nella regione. Ma è ancora presto per parlare di una vera e propria inversione di tendenza o di un cambiamento di rotta.
Alcuni importanti analisti statunitensi, tuttavia, si stanno rendendo conto di quanto abbia nuociuto alla credibilità internazionale del loro paese la guerra in Iraq e perfino la posizione intransigente assunta nei confronti del governo legittimo di Hamas in Palestina.
In un contesto internazionale in cui, al di là di un embrionale “asse” russo-cinese, non esiste ancora alcuna potenza o alleanza tra potenze in grado di controbilanciare i pericolosi effetti generati da un assetto unipolare, l’unica speranza è offerta da un ravvedimento dell’intelligentsia imperiale capace di moderare lo spirito di crociata che pervade l’amministrazione repubblicana. Per questo è importante captare i segnali di cambiamento provenienti da istituti come il Carnegie Endowment o il Council on Foreign Relations, o da personalità – diversissime tra loro – come Henry Kissinger, Francis Fukuyama e Robert Kagan. Segnali di questo tipo sono addirittura vitali per gli europei (profondamente danneggiati dalla politica mediorientale degli Usa), che non essendo un soggetto politico forte sono strutturalmente incapaci di elaborare un’interpretazione autonoma dei propri interessi e di stabilire una strategia efficace per difenderli.
Una testimonianza in relativa controtendenza, particolarmente importante nei giorni della visita di Olmert a Washington, è offerta per esempio da un recente saggio di Nathan J. Brown, intitolato “Convivere con la democrazia palestinese”. Brown è un membro autorevole del Carnegie Endowment (la prestigiosa organizzazione creata un secolo fa dal magnate scozzese Andrew Carnegie), dove figura come esperto in “palestinian politics” e “islamic law”.
Al centro della sua riflessione sta il problema della credibilità della strategia americana in Medio Oriente, una strategia che è stata giocata tutta sul principio della “democracy promotion” e che ha individuato nella Palestina il “test case” dell’esportazione della democrazia in Medio Oriente. Nathan Brown la sostiene ed è disposto a sostenerla fino in fondo, convinto che abbia ancora una chance di riuscita in Palestina (dopo il suo fallimento in Iraq).
Quello della credibilità non è un problema di poco conto in politica internazionale. Dopo lo storico discorso di Bush del 24 giugno 2002 (discorso che fece impallidire lo stesso Shimon Peres), gli Stati Uniti non hanno più credito come principale broker politico nei conflitti regionali.
Trasformando la loro special relationship con Israele in alleanza organica (ben più organica di quella che li lega attualmente agli europei), Bush ha reso semplicemente temibile (ma non desiderabile) la presenza americana in Medio Oriente. Le evidenti lacune strategiche della “war on terror” e il sostanziale insuccesso del progetto iracheno hanno poi peggiorato la situazione, rendendo meno credibile anche la loro capacità di deterrenza e di intervento, tanto da indurre molti stati (più o meno potenti, come la Russia e l’Iran) ad alzare la testa e sfidarne apertamente la supremazia.
La guerra in Iraq, in particolare, ha dimostrato che l’America può agire ovunque voglia, ma riesce a farlo piuttosto male. Nathan Brown sa bene che se dovesse fallire anche la carta palestinese – un’importante carta simbolica (democracy first!) – a Washington non rimarrebbe proprio nulla del “Grande Medio Oriente” che aveva vagheggiato.
Su queste basi, Brown riconosce e contesta apertamente l’intenzione di Washington di portare Gaza e la West Bank al collasso economico e politico. Si oppone ugualmente all’idea europea di “quadrare il cerchio” e bypassare il governo Hanyeh pagando direttamente i salari ai dipendenti pubblici dell’Anp.
Ogni tentativo sia di affossare sia di aggirare Hamas, spiega Brown, non farebbe che aumentare l’ostilità araba verso l’Occidente e la già radicata diffidenza degli islamisti verso la retorica democratica (Algeria docet). Brown sembra manifestare anche una sincera preoccupazione per i disastrosi effetti sociali e umanitari prodotti dal blocco dei fondi destinati all’Anp, e arriva perfino a riconoscere una certa pragmaticità e affidabilità politica nel Movimento di resistenza islamica, sostenendo che la vittoria di Hamas non è incompatibile con una riforma politica democratica e che anzi, in forza del suo straordinario risultato elettorale, «Hamas appoggia la democrazia e lo stato di diritto più di ogni altro partito di governo nella regione».
Brown non sembra avere dubbi sulla politica da seguire: dare ad Hamas il tempo di cambiare, a Fatah il tempo di riformarsi e ad altre forze politiche la possibilità di emergere. Più in generale, la sfida è quella di integrare i movimenti islamisti, con il loro forte radicamento sociale, all’interno di una libera competizione democratica.
Non esistono altre opzioni: è possibile fare pressioni, ma è sbagliato distruggere il governo palestinese. Chi sostiene il nazionalismo laico dovrà aspettare le elezioni del 2010, quando Fatah, sempre che sia in grado di riformarsi, avrà una chance da giocare per tornare legalmente al governo. Agire diversamente provocherebbe nel mondo arabo reazioni ancora peggiori di quelle prodotte dall’avventura irachena.
Intervistato lo scorso 19 maggio dal Council on Foreign Relations, Brown ha ribadito il suo punto di vista e ha sottolineato un aspetto ulteriore: Hamas e il governo Olmert non comunicano, non si parlano, non si conoscono.
Nella situazione attuale, dove risulta politicamente impossibile pensare a un loro incontro nel quadro di una conferenza internazionale presieduta dal Quartetto, sarebbe almeno auspicabile l’avvio di una “quiet diplomacy” tesa a incoraggiare una serie di contatti informali o semiufficiali.
Le tesi di Brown su Hamas possono suonare scontate all’orecchio di un europeo, e perfino a quelle di un israeliano. Ma non bisogna dimenticare che per gran parte dell’opinione pubblica e dell’establishment politico americano la sua posizione – peraltro cauta e moderatissima – può apparire al limite dell’eresia. Negli Stati Uniti esiste un’ampia discussione sull’utilità o sulla moralità della “democracy promotion” (criticata tanto da un liberal progressista come Chomsky quanto da un vecchio falco democratico come Zbigniew Brzezinski), ma l’idea di offrire un’opportunità politica ad Hamas coincide ancora, a tutti gli effetti, con la violazione di un tabù.

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