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La Stampa Rassegna Stampa
23.05.2006 Le metamorfosi di Israele secondo Vittorio Dan Segre
un'intervista di Arrigo Levi

Testata: La Stampa
Data: 23 maggio 2006
Pagina: 29
Autore: Arrgo Levi
Titolo: «Dan Segre «Ho fatto un sogno:Israele neutrale»»

Da La STAMPA del 23 maggio 2006:

UN libro di tanti anni fa di Vittorio Dan Segre, pubblicato in Italia nel 1973 col titolo Israele una società in evoluzione, si chiudeva con la domanda: «Qual è il futuro dello Stato ebraico?». Le ultime parole di quel libro erano: «Nessuno può negare il fatto che la sorte d’Israele, alla fine del secolo XX, non è più quella dell’ebreo errante. Essa continua, tuttavia, a rimanere indistinta dall’imperscrutabile destino degli ebrei».
Sono passati da allora 33 anni, e il suo ultimo libro ha ancora un titolo - Le metamorfosi di Israele - simile a quello di allora: Israele continua a cambiare. Segre ripercorre, aggiornandola, la storia dello Stato ebraico e delle sue guerre: una storia di cui non è stato soltanto testimone, ma che ha anche contribuito a fare, come soldato, diplomatico, studioso, da quel giorno del 1939 in cui lasciò giovanissimo il suo amato Piemonte (dove oggi vive più che a Gerusalemme), per una nuova patria. E ancora una volta ripropone il mistero dell’«imperscrutabile destino» d’Israele e degli ebrei.
Un’amicizia antica quanto lo Stato d’Israele (nel 1948, nelle mie licenze da soldato della «Brigata del Negev», una delle case di «Italkim» che mi accoglievano era la sua, a Gerusalemme: anche se lui era spesso lontano, impegnato in segrete missioni), mi spinge a presentare questo libro parlandone con lui: la sua mente inquisitiva suggerisce molte domande.
Citi più volte un passaggio della Bibbia, Numeri 23-9, là dove è detto che il popolo degli ebrei (definito dall’Esodo come «reame di sacerdoti e popolo santo»), è destinato a essere «un popolo che dimorerà solo e che non avrà parte fra le nazioni». E auspichi per lo Stato d’Israele una «attiva e morale neutralità», che gli dia sicurezza, e un ruolo costruttivo nel mondo. La neutralità potrebbe portare alla pace?
«Quei due passaggi sono: il primo un programma di politica interna, il secondo un programma di politica estera. Un “reame di sacerdoti” richiede strutture di vita collettiva “sacra”. È questo l’ideale del monoteismo ebraico: gran parte dei suoi principi morali sono penetrati nella coscienza dell’umanità, a cominciare dall’idea della sottomissione del Sovrano alla Legge, al dovere di non restituire lo schiavo fuggitivo (il diritto d’asilo, all’uguaglianza di diritti dello straniero). Quanto al “popolo che non avrà parte fra le nazioni”, è un ideale che non è mai stato realizzato nello Stato ebraico antico, che prese parte al gioco delle Nazioni, e che creò reami idolatri e violenti. Quanto a Israele: neutralità non significa indifferenza alla violenza organizzata, ma una politica estera basata sull’autocontrollo. Oggi questo principio è alla base di molti accordi internazionali, come quelli per la protezione dell’ambiente, delle foreste, delle calotte polari».
Tu indichi in uno scenario di “assopimento del conflitto e di riluttante tolleranza il più realistico sentiero verso la soluzione della crisi”. È un’ipotesi plausibile?
«Per applaudire occorrono due mani. Quanto ai palestinesi e al mondo arabo e islamico, sta a loro decidere. Da parte d’Israele è in atto un movimento interessantissimo, legato alle metamorfosi d’Israele. Il primo messaggio del ministro Sharett all’Onu, dopo la nascita dello Stato, fu una dichiarazione di neutralità: “Non prenderemo parte al gioco delle Nazioni”. Già il fondatore del sionismo, Herzl, sognava una società degli ebrei in Palestina come politicamente neutrale, come un ponte fra i popoli. Questa idea andò affievolendosi con lo sviluppo della potenza militare d’Israele, e con l’idea che si potesse ottenere la pace con la guerra».
Era un’idea in cui Rabin non credette mai.
«Mentre Sharon diceva: “Datemi una brigata corazzata e arriverò ad Algeri”, Dayan affermava: “Meglio Sharm-el-Sheikh senza la pace, che la pace senza Sharm-el-Sheikh". Ma con l’Egitto e la Giordania Israele ha avuto la pace restituendo tutti i territori occupati. L’Israele d’oggi ha compreso che non si può ottenere la pace con i Paesi arabi con la forza delle armi, o imponendo la propria volontà a un altro popolo. Lo ha capito Sharon, quando ha parlato della differenza che esiste quando si guarda al mondo dal basso, o dall’alto del potere. Questa è stata la grande metamorfosi di Sharon e d’Israele, che ha portato alla vittoria un partito, Kadima, senza un capo, senza strutture, fatto di persone riciclate da altri partiti. Il messaggio di Sharon è stato accettato. Questo è il fatto nuovo».
Il messaggio troverà una risposta giusta da parte araba?
«Questo è tutto da vedere. Ma da Israele, il messaggio è che si è iniziato un processo di decolonizzazione».
E Hamas?
«L’enigma di Hamas è doppio. Con la vittoria di Hamas, è la prima volta che i palestinesi hanno un governo eletto, onesto, impegnato nel social-religioso, il cui successo elettorale è stato dovuto alla sua opposizione alla corruzione del sistema messo in piedi da Arafat. Ora dovrà assumersi le sue responsabilità anche in politica estera. Su questo, Hamas, che è l’espressione ufficiale in Palestina dei Fratelli musulmani, è scisso. Parte degli eletti, e il suo stesso leader, vivono all’estero. Così si ripropone la stessa posizione dell’Olp. La Carta Costituzionale dell’Olp non era meno categorica di Hamas sul non diritto all’esistenza dello Stato ebraico in terra d’Islam. Anche la rottura fra la responsabilità interna e l’estremismo estero è la stessa. Arafat diede solo l’impressione di saper moderare fra queste due anime dell’Olp».
Lo saprà fare Hamas?
«In questo Israele ha delle responsabilità a cui far fronte. Non può né deve negare il pericolo di un organismo deliberatamente terroristico. Ma deve misurare la delicatezza di un comportamento che non favorisca gli estremisti a danno dei meno estremisti. Finora, nella risposta volutamente moderata all’ultimo atto terroristico in Israele, Olmert ha indicato di voler andare in questa direzione. Ma non so se questo attacco sia stato o no la ripresa di un’offensiva generale. Se lo è stato, se questo sarà il primo di una nuova serie di atti terroristici, allora si avrà la guerra, perché la risposta non potrà essere che violenta. Ma ancora non lo sappiamo. Ci vuole intanto massima prudenza, molto autocontrollo».
Tu incominci il tuo libro con queste parole: «Non ho dubbi che fra mille anni gli ebrei esisteranno ancora come tali. Non ho dubbi che fra mille anni lo Stato d’Israele attuale non esisterà più». È una profezia oscura. Me la chiarisci?
«Lo Stato d’Israele attuale è l’ultima espressione dei movimenti di liberazione nazionale iniziati in Europa nell’800. Ma questa situazione sta cambiando, ogni giorno assistiamo alla formazione di complessi politici più ampi delle Nazioni, come la Ue, e di nuovi comportamenti non più basati sullo slogan “right or wrong, my Country”. Non sopravvivrà uno Stato nazionale ebraico di tipo europeo, così come è nato».
Ti cito un’altra profezia biblica. Dice Isaia che «negli ultimi giorni» tutti i popoli accorreranno alla casa del Dio di Giacobbe, arbitro fra tutte le genti, che «delle loro spade faranno vomeri, e delle lance roncole, e non leveranno più la spada contro altri e non impareranno più la guerra». Avrà ragione Segre o avrà ragione Isaia?
«Per me una cosa è certa, che le spade non funzionano più. La guerra futura non sarà più una guerra di spade, ma la guerra al terrorismo, che tutti i Paesi devono affrontare. Con i kamikaze si ritorna al Vecchio della Montagna, che creò la setta dei Hashishim, gli Assassini suicidi, nutriti di hashish, terrore dei Crociati e dei capi islamici fra il XII e il XIII secolo. Ma il loro fallimento ha dimostrato che il suicidio non porta mai alla realizzazione degli scopi politici».
Nel tuo libro non parli del pericolo nucleare. Perché?
«Le armi nucleari sono la base di un equilibrio di impotenze. Neanche il presidente dell’Iran rischierà la “vetrizzazione” del suo popolo».
Allora può darsi che alla fine abbia ragione Isaia.
«Perché no? Dopo tutto ha un bel posto nella storia dei popoli».
Tu definisci Israele come uno Stato liberale, «democratico e moderno, la prima comunità ebraica laica, non sacra, della storia». Questo era il progetto sionista originale: ma Israele, dopo tante metamorfosi, è ancora lo Stato laico e non sacro delle origini?
«Sì, ma lo è in un contrasto continuo con la sua vocazione sacra. In questo sta la sua macerazione positiva. In Israele la politica è ancora un fatto ideale, non ideologico».
Un problema che ti poni è quello del rapporto fra Israele e gli ebrei che continuano a vivere fra altri popoli. Tu immagini che lo Stato d’Israele, pur «senza negare la sua affinità all’intero popolo ebraico e mantenendo la posizione di rifugio per gli ebrei perseguitati», debba dichiarare solennemente che vuol essere soltanto «lo Stato della Nazione israeliana»; mentre gli Ebrei della diaspora debbono sviluppare la propria «giudeità» solo come religione. Questo, dici, «metterebbe fine alla confusione attuale fra israeliani ed ebrei». Tu non pensi che gli ebrei della Diaspora diventeranno sempre meno ebrei?
«No, perché alla crescita dell’assimilazione si contrappone un processo di crescita di autenticità ebraica. Ci sono più sinagoghe e yeshivot oggi di quante ci siano mai state. Penso alla rinascita ebraica in Italia, che Rav Steinsalz ha definito “la prova che esiste la vita dopo la morte”».
Noi, i sopravvissuti del ‘900, ci avviciniamo alla fine del cammino. Che cosa lasciamo ai nostri figli e nipoti?
«Non si può partecipare due volte al Risorgimento, o alla Rivoluzione francese, o alla Rinascita sionista. Ai figli abbiamo lasciato il compito di occuparsi di questioni più difficili, in cui ci vuole costanza e disciplina, molto più che nel nostro tempo, quando eravamo portati dal vento dell’ideale, e sospinti dal nemico che avevamo di fronte. Ma abbiamo dato loro la prova che talvolta si può cambiare il corso degli eventi, e che non si ha mai il diritto di dire che non si può fare ciò che è giusto fare».
C’è una domanda che non ti ho fatto, che avresti voluto che ti facessi?
«Sì: quale è la ragione del nuovo odio viscerale nei confronti degli ebrei e di Israele? Dopo tutto, ci sono decine di nuovi Stati con problemi interni spaventosi: ma perché l’odio viscerale contro Israele, come se non esistesse altro esempio al mondo di male, o di errori? Penso che facciamo paura agli Stati multietnici, di fronte alla rinascita di un fossile politico, come diceva Toynbee a Herzl, che gli rispose: ma noi non siamo fossili. Il mio amico Jacques Maritain avrebbe risposto che anche questo fa parte di quello che lui definiva il mistero di Israele. Ma io non sono un credente e un filosofo come era lui».

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