Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Usa le parole come i terroristi suicidi le bombe la propaganda antisraeliana di Mahmoud Darwish
Testata: Corriere della Sera Data: 23 maggio 2006 Pagina: 41 Autore: Cecilia Zecchinelli Titolo: «Darwish: Intifada addio, canto l’amore - Maestri»
Secondo l'articolo su Mahmud Darwish pubblicato nelle pagine culturali del CORRIERE della SERA di martedì 23 maggio 2006, il poeta palestinese, ex membro del consiglio direttivo dell'Olp, ormai preferirebbe per le sue liriche temi universali come l'amore a quelli politici e nazionalisti. Darwish però non risparmia nella sua intervista false accuse a Israele e ricostruzioni storiche del tutto inattendibili (sarebbe stato Israele a "perdere l'occasione" di essere riconosciuto dal mondo arabo, in seguito al processo di pace con i palestinesi, che in realtà é stato affossato da Yasser Arafat). Le poesie di Darwish saranno anche cambiate, ma le sue dichiarazioni restano quelle di un propagandista antisraeliano. Cecilia Zecchinelli registra del tutto acriticamente le parole di Darwish, compresa la definizione del terrorismo palestinese come "resistenza" Ecco il testo:
È sopravvissuto a una difficile operazione al cuore. Dall’incontro sfiorato con la morte («l’esiliata, l’infelice, la potente») è nata l’elegia «Judariya » , Murale , il suo ventesimo libro pubblicato in Italia da Epochè nella bella traduzione di Fawzi Al Delmi. È sopravvissuto a lunghi anni di esilio e di assenza dall’«Eden perduto», la Palestina da cui è fuggito bambino una notte del 1948. Poi all’assedio di Ramallah dove vive dal 1996. Soprattutto, è sopravvissuto a quell’ingombrante cliché di «poeta della resistenza palestinese» che dagli Anni Sessanta - Carta d’identità circolava in milioni di cassette, i suoi versi erano cantati dal libanese Marcel Khalifeh, Bob Dylan del Medio Oriente - l’accompagna e gli sta sempre più stretto. Mahmoud Darwish, 64 anni, è il poeta vivente più letto nel mondo arabo, il più ascoltato nei reading che ancora attirano migliaia di persone. Uno dei più conosciuti e premiati all’estero e perfino in Italia, che finora lo ha tradotto ben poco mantenendo così in vita quel ricordo-cliché di eterno militante. «Molto è cambiato, io sono cambiato. La poesia direttamente politica come quella dei miei 20 anni è legata agli eventi, destinata a passare con loro. Ora i miei versi sono più umani, più universali», dice Darwish nella meravigliosa Santa Maria della Scala di Siena, l’ex ospedale medievale dove Calvino morì nel 1985, oggi riservato a rari eventi culturali. Come la lettura serale di Judariya-Murale , in arabo con la voce calda e tranquilla di Darwish, in italiano con quella appassionata di Sandro Lombardi. «Sono versi più difficili ma sono fortunato: oggi moltissimi miei lettori sono giovani. Io sviluppo il loro gusto, loro la mia lingua. Con loro appartengo al futuro. Mi danno speranza che la mia voce non vada perduta». Una voce rigorosamente in lingua classica, che resiste in un mondo dove Al Jazeera , le canzoncine pop di Nancy Ajram o nel migliore dei casi i romanzi (genere «nuovo») hanno preso il posto di Imr Al Qais e Al Mutanabbi. «Ormai non siamo più il popolo della parola in rima, la poesia è in crisi anche da noi, relegata in stanze molto private tranne poche eccezioni», ammette Darwish. Lui stesso ha scelto spesso la prosa (tradotta in italiano solo con Memoria per l’oblio , Jouvence, 1996). «Anche il mio ultimo libro, ancora senza titolo - anticipa - è in prosa. È un addio a me stesso, il discorso che nessuno altro dovrà fare sulla mia tomba, una sorta di autobiografia». Ma anche se «chi scrive solo poesia non appartiene più al nostro tempo», Darwish è nei versi - liberi, musicali, densi di metafore e simboli - che più si ritrova. «Il mio progetto poetico non è finito, penso di poter ancora sviluppare la poesia araba moderna». E la lingua. «Io voglio, voglio vivere - urla alla morte e ai medici in Murale - Lasciate tutto com’è e riportate in vita la mia lingua. Non voglio tornare a nessuno, non voglio tornare a nessun Paese dopo questa lunga assenza. Voglio soltanto tornare alla mia lingua». Lingua come identità, poesia come essenza. E non solo per lui, palestinese nato in un villaggio che non esiste più, nomade suo malgrado. «Da quando ho iniziato a vedere il mondo sento dire che stiamo vivendo il peggior momento della storia degli arabi, ma ogni giorno è più nero. Noi arabi abbiamo il diritto di sentirci fuori dalla storia, a cui cerchiamo di tornare senza successo anche perché divisi», dice amaro Darwish. Morto il panarabismo di Nasser, rifiutato da molti perché laici o cristiani il fattore unificante dell’Islam, «la lingua resta l’unico elemento comune, tutto il resto è andato distrutto. Da qui dobbiamo partire per ricostruire il futuro, se riusciremo a trovare un progetto culturale avremo fatto il primo passo». Basta politica, allora? Gli anni di Darwish poeta-resistente e membro del comitato esecutivo dell’Olp sono davvero svaniti? «Non sono mai stato un politico, nel 1987 quando ho saputo della mia elezione ai vertici dell’Olp ho pianto. Gli accordi di Oslo del 1993 mi hanno dato l’occasione di dimettermi». Ma questo, precisa, non per richiudersi in un mondo a parte. Una scelta impossibile «perché la nostra terra resta occupata, il mio popolo sotto assedio». E allora, invece della militanza impostagli in passato dalla sua gente, la scelta di Darwish è la poesia di resistenza a cui lo obbliga ancora la Storia. «Ogni buona poesia che parla di libertà e amore, giustizia e bellezza è una forma di resistenza, contro la bruttezza e la violenza, contro l’annientamento. E costruisce nuovi ponti con gli altri». Più universale rispetto al passato ma ricca degli stessi «semi»: l’assenza, l’oppressione, la sofferenza, l’esilio, la prigione, l’identità. Il dialogo tra esilio e patria. La disperata voglia di amore e di pace. «Da quando abbiamo realizzato che questo Paese va diviso in due, la pace è diventata possibile. Ogni palestinese sente che la Palestina storica è la sua patria ma tutti sappiamo che ormai appartiene a due popoli - dice Darwish, che nel 1988 scrisse la dichiarazione di Algeri con cui l’Olp accettava i due Stati -. Ma oggi la pace sta diventando impossibile perché Israele rifiuta di negoziare i confini, il futuro di Gerusalemme, il diritto al ritorno degli esuli, costruisce muri e cantoni. Israele aveva l’opportunità d’oro d’essere accettata, l’ha persa. Magari non tornerà più, presto governeranno in molti Paesi i movimenti islamici». Come Hamas? «Sì, come Hamas, eletta peraltro democraticamente con un voto di disperazione, che sta già punendo gli stessi palestinesi. E con risultati negativi che non si sono ancora visti ma che io, laico e marxista in un mondo di religioni, temo molto per la nostra cultura». Parla ancora di molte cose Darwish. Della crisi degli intellettuali arabi e della mancanza di democrazia nei loro Paesi. Degli elementi comuni tra le tre grandi religioni la cui ricerca «lo ossessiona». Dei poeti che più ama (da Dante a Eschilo, da Walcott a Ritsos). Della Palestina, ovviamente. «Adesso tornerò a Ramallah, non posso preferire l’esilio potendo tornare nella mia terra - conclude -. Solo quando sarà liberata anch’io sarò libero di andare dove voglio». Succederà? La speranza che emerge dalle sue poesie con quella «terra verde» così ricorrente è vera? «La speranza è lontanissima, nel presente non c’è. Ma dobbiamo inventarla altrimenti siamo morti», risponde. E nel frattempo continuerà a scrivere, soprattutto poesia. «Quando ero sotto assedio a Ramallah, quando ho visto i tank israeliani sotto le mie finestre, ho scritto. A ogni verso mi sembrava che i soldati si ritirassero di 10 metri - ricorda -. È il solo modo che conosco per proteggere il mio spirito. Per sopravvivere».
In un riquadro intitolato "Maestri" la redazione del CORRIERE commette un errore di geografia che invitiamo i nostri lettori a segnalare:
Mahmoud Darwish è nato a Birwa, un villaggio della Galilea (Palestina). Dal 1996 vive a Ramallah È autore di una ventina di libri, tra cui «Memoria per l’oblio» (Jouvence) e «Murale» (Epoché) Grande appassionato di poesia, tra i suoi autori preferiti cita: Dante, Eschilo, Walcott (nella foto sopra), Ritsos
La Galilea , ricordiamo, é in Israele, non in Palestina
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