L'Eurabia e l'America che segue Chomsky alleate nel'odio di sé
Testata: Il Foglio Data: 19 maggio 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «EURABIA (DANI)MARCIA - AMERICA CHE SI ODIA,CHOMSKY»
Dal FOGLIO di venerdì 19 maggio 2006, un articolo sulla "dhimmitudine" (l'atteggiamento di sudditanza sottomissione politica e culturale all'islam fondamentalista) che dilaga nel nord Europa :
Roma. Un copione già letto. Il ministro olandese per l’immigrazione, Rita Verdonk, la signora che ha appena dato il ben servito ad Ayaan Hirsi Ali, tre giorni dopo la morte di Theo van Gogh si reca a Soesterberg, a parlare di “valori olandesi”. Viene introdotta da un imam, Ahmad Salam, che si rifiuta di stringerle la mano. “Preferirei morire”, dice Salam. E’ la volta del premier Jan Peter Balkenende, che in occasione del ramadan invia ai musulmani d’Olanda l’immagine di una donna in burqa augurando a tutti “felice Ramadan” e lodando gli “effetti catartici” del digiuno islamico (durante il quale Mohammed B. ha tagliato la gola a Theo). La Verdonk, detta anche “Iron Rita”, fa sapere che i musulmani che hanno inneggiato all’omicidio del regista stavano “solo cercando un’identità”. A suggellare la capitolazione, l’iniziativa “We Amsterdammers”, con cui Iron Rita ha patrocinato libri e video dell’islam “moderato”. Quello dell’imam che non le ha stretto la mano perché donna. A Copenaghen identiche prove generali di “dhimmitudine” e cattiva coscienza, mentre a New York il grande Art Spiegelman ripubblicava le vignette su Maometto, e l’Onu celebrava il World Press Freedom Day 2006. Il Wall Street Journal ha dato la notizia che Flemming Rose, responsabile cultura del quotidiano danese Jyllands-Posten, secolarista in stile Hirsi Ali al centro della bufera delle vignette, sta per lasciare Copenaghen per gli Stati Uniti, come ha già fatto la deputata e Cassandra somala, accolta ieri con un “benvenuto” del Dipartimento di stato. Rose era l’“agente provocatore”, come è stato chiamato da parte della stampa danese ed europea, che aveva preso la decisione di pubblicare le vignette su Maometto. Dodici disegnatori del Jyllands sono già sotto scorta, protetti dalle minacce islamiste che arrivano soprattutto dal Pakistan, dove Hamid Mir, direttore del quotidiano Ausif, ha appena scritto che in Europa è già pronto un commando per eseguire le sentenze, “come con Van Gogh”. “Non vedete cosa è successo a Rushdie per aver scritto un libro anti-islamico?”, ha detto Rose. “La risposta all’islamismo è la chiave della guerra culturale in Europa. Lo sarà per i prossimi decenni”. Uno studente pachistano ha già tentato di uccidere il direttore di Die Welt, che pubblicò le vignette. Il segnale che arriva da Copenaghen non è proprio di rifiuto dell’intimidazione. Cinque giorni fa si è svolta una surreale conferenza sull’“islamofobia”, nella cornice del Bella Center di Copenaghen, ideale per ospitare una placida resa senza condizioni. Mohamed Ali, direttore di Islam Channel, canale televisivo che ogni giorno diffonde hadith coranici e organizzatore della conferenza, ha detto che “dobbiamo avere il coraggio di parlare dei pregiudizi sull’islam”. Decine i politici e giornalisti, mille partecipanti, invito alla regina, presenza del sindaco di Copenaghen Anders Gadegaard, dell’ex premier australiano Bob Hawke e del principe Alfred. E poi sceicchi, imam danesi e convertiti alla parola del Profeta. Molti i siriani, ma non il regista Ossama Mohammed, l’antibaathista celebrato questa settimana dal New Yorker. Hawke ha detto soave che “i musulmani sono pacifici e vogliono dialogare con gli altri”. Non poteva mancare il sindaco antisionista di Londra, Ken Livingstone. La dirigenza danese ha celebrato coloro che hanno causato il crollo dell’85 per cento delle esportazioni del paese, un prete ammazzato al grido di “Allah è grande” e ambasciate in fiamme. Donne in completo nero, immerse nel burqa, vendevano cimeli di una Danimarca sedata. Perfino stanze ad hoc per “signore” e “signori”, come vuole la sharia. La conferenza era finanziata dall’Islamic Bank of Britain. Nell’apertura è stato esaltato “il diritto di ogni individuo ad abbracciare la fede in coscienza”. Parole sagge, degne di John Locke. Peccato che fra gli astanti ci fossero solo cristiani convertiti all’islam, nemmeno un apostata o un difensore dell’addio alla Shia. Dopo aver chiesto la revisione dei curricula scolastici, è stata denunciata “la morte di migliaia di innocenti iracheni perpetrata dal presidente Bush in nome del proprio Dio”. Tra gli speaker famosi lettori del Corano; Saleh Al-Namlah, ministro della Cultura dell’Arabia Saudita; il deputato pakistano Kamal Qureshi; Mohamed Slaheddine del Supremo consiglio islamico della Tunisia; il giornalista della Bbc Phil Rees; lo sceicco palestinese Abu Laban, capo del Danish muslim council; l’esperto saudita di Sunna, Abdulaziz Al Musleh e la giornalista inglese Yvonne Ridley, convertita alla sharia dopo essere stata ostaggio dei talebani. A Bruxelles, nei giorni della conferenza di Copenaghen, l’Unione europea diffondeva il nuovo report sulla Danimarca, accusata di aver fomentato l’odio per la cultura islamica. Tu chiamala, se vuoi, “Eurabia”.
Sempre dal FOGLIO, un articolo su Noam Chomsky:
Noam Chomsky, settantasettenne mito della sinistra radicale e gran maestro dei riti della religione antiamericana, si è recato lo scorso 13 maggio in visita al quartier generale di Hezbollah, a Beirut, dove ha incontrato il segretario generale del movimento, Sayyed Hassan Nasrallah, e ha visitato il campo di Chatila. L’omaggio all’organizzazione terroristica non è che l’ultima perla nel curriculum di Chomsky, che non ha mancato di sottolineare come l’accusa di terrorismo vada piuttosto rivolta all’America. Gli argomenti di Hezbollah, ha detto, e l’uso che fa delle armi sono pienamente ragionevoli e giustificabili nell’attuale situazione libanese: parola dell’intellettuale definito dal Guardian “la coscienza di una nazione”, dal New Yorker “una delle più grandi menti del Ventesimo secolo”, e dal suo biografo ufficiale Robert F. Barsky come qualcuno che “rappresenterà per le future generazioni quello che Galileo, Cartesio, Newton, Mozart o Picasso hanno rappresentato per noi”. Chi volesse attingere al pozzo di saggezza militante di Chomsky, anche in Italia non ha che l’imbarazzo della scelta. Solo nel 2006, la Net ha pubblicato “Sulla nostra pelle” e “La fabbrica del consenso”; la Piemme ha dato alle stampe “Le illusioni del Medioriente”; la Rizzoli ha fatto uscire “America: il nuovo tiranno”; la Baldini Castoldi Dalai ha da poco pubblicato, con il titolo “Dopo il cataclisma”, il secondo volume dell’opera “L’economia politica dei diritti umani”, risalente agli anni Settanta e mai tradotta in precedenza; la Datanews sta mandando in libreria l’edizione economica di “Anarchia e libertà”. Tanta prolificità non incanta un suo ex compagno di lotta, David Horowitz, fondatore negli anni 60 della New Left e oggi vicino ai neoconservatori, che lo giudica “parlatore incredibilmente noioso e scrittore mediocre”. La prosa è strutturata con un modello fisso: un catalogo di orrendi crimini degli Stati Uniti, intercalati da commenti rabbiosi o sarcastici, dove si ripetono ossessivamente termini come atrocità, omicidio, genocidio, massacro, sterminio. “Niente mi scandalizza quanto gli intellettuali che sfruttano la competenza in un campo scientifico per prendere posizione su argomenti che ignorano”, diceva Chomsky in un’intervista di qualche anno fa. Un giudizio tagliato sulla sua misura. Nato a Philadelphia nel 1928 da una famiglia di ebrei russi, Chomsky conquista la celebrità come linguista del Mit di Boston neanche trentenne, grazie agli studi sul carattere innato delle strutture grammaticali di tutte le lingue. Alla fine degli anni 60 diventa l’emblema dell’intellettuale impegnato, sempre pronto a denunciare l’imperialismo americano e israeliano. Con più di una figuraccia: la difesa del regime comunista di Pol Pot, che fra il 1975 e il 1979 sterminò quasi un terzo della popolazione cambogiana, macchia ancora oggi la sua reputazione. Nel giugno del 1977, su The Nation, definiva “distorsioni di quarta mano” le testimonianze giornalistiche sulle condizioni di Vietnam e Cambogia dopo la vittoria dei comunisti. Per Chomsky le “storie fantasiose sulle atrocità comuniste” avevano lo scopo di minare la credibilità di chi si opponeva alla politica estera statunitense. Presentava un’immagine idilliaca della situazione cambogiana e minimizzava il numero delle vittime (“poche migliaia”) paragonandole ai collaborazionisti giustiziati dai movimenti di resistenza alla fine della Seconda guerra mondiale. “Il cosiddetto massacro dei khmer rossi – concludeva – è una creazione del New York Times”. Due anni dopo, quando gli orrori non poterono essere più negati, Chomsky disse che gli aspetti negativi del regime andavano bilanciati con “le realizzazioni costruttive”. L’idea che l’America abbia ereditato dai nazisti il ruolo di male assoluto nel mondo, e che occorra quindi “denazificarla”, rappresenta anche la sua chiave di lettura della Guerra fredda. Il meglio di sé, comunque, Chomsky l’ha offerto dopo l’11 settembre. Nel suo primo commento, non riuscì a nascondere la propria soddisfazione. Secondo lui, l’attentato nel complesso era da valutare positivamente, perché rappresentava un punto di svolta nella guerra contro l’imperialismo. Mentre i veri massacri in Cina, Vietnam e Cambogia l’hanno sempre lasciato tiepido, Chomsky s’infiamma per quelli immaginari. Nell’ottobre del 2001, subito dopo l’inizio delle operazioni militari contro il regime talebano, dichiarò che gli Usa stavano progettando un “genocidio silenzioso” ai danni di tre o quattro milioni di persone, con bombardamenti e sterminio per fame. Una balla colossale, come tante di quelle raccontate da Chomsky. Per le quali non paga mai pegno.
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