E’ l’identità quella che l’ebreo del Kosovo, David Albahari, ricerca invano nel suo breve e ossessivo romanzo Goetz e Meyer edito da Einaudi nella traduzione di Alice Parmeggiani. Se si volta indietro David, nato a Pec’ nel 1948, scorge un immenso buco nero, l’abisso che ha inghiottito più di trenta parenti, un intero albero genealogico. Sotto di lui bisbigliano morti senza volto e i loro nomi scivolano via leggeri dalle labbra d’un sopravvissuto ormai demente: Sara, Lenka, Zlata e poi Isak e Jakov e tanti altri sciolti nel nulla. Ci hanno pensato, a suo tempo, Goetz e Meyer, due sottufficiali delle SS. Li caricavano su un autocarro e, lungo il tragitto fra Belgrado e Jajinci, li gassavano collegando il tubo di scappamento con un foro sotto il cassone. Bambini, donne, anziani, a migliaia, tra la primavera del 1941 e quella del ’42. L’orrore non ha fine e Albahari vi si immerge anima e corpo: cerca non solo l’identità di quelle famiglie per dare un senso alla propria vita, ma anche il volto di Goetz e Meyer, due casuali interpreti della banalità del male. Si scinde, entra nella loro pelle e si tuffa nella morte attraverso un libro di fortissimo impatto emotivo, che evoca fantasmi e semina granelli di follia. Un romanzo alla ricerca di sé nel vuoto nulla. Incubo dal ritmo impazzito che chiede al mondo un pizzico di memoria, perché ”l’anima che ricorda – sta scritto – non può perdersi”.