Così Israele difese il suo diritto ad esistere la risposta di Benny Morris alle falsificazioni storiche di Mearsheimer e Walt
Testata: Il Sole 24 Ore Data: 17 maggio 2006 Pagina: 1 Autore: Benny Morris Titolo: «Le ragioni dei sionisti»
Il supplemento culturale domenicale del SOLE 24 ORE del 14 maggio 2006 pubblica in prima pagina la risposta dello storico israeliano Benny Morris al saggio dei politologi americani John Mearsheimer e Stephen Walt "La lobby israeliana e la politica estera degli Stati Uniti". Morris contesta in particolare la ricostruzione della storia del conflitto arabo-palestinese -sionista che i due autori ricavano anche da una distorta e strumentale lettura dei suoi libri. Ecco il testo:
Due eminenti politologi americani, il professor Mearsheimer dell’università di Chicago, e il professor Walt dell’Università di Harward, hanno recentemente sollevato un vespaio con la pubblicazione di un loro saggio su La lobby israeliana e la politica estera degli Stati uniti. Questo pamphlet antisraeliano si sta diffondendo attraverso internet ed è comparso in una versione ridotta anche sulla «London Rewiew of Books». In breve Mearsheimer e Walt affermano che l’appoggio americano a Israele va contro gli interessi nazionali degli Stati uniti e che non é affatto giustificato da «imprescindibili ragioni etiche». Per sostenere quest’ultima punto, gli autori negano che Israele rappresenti la parte più debole nel conflitto palestinese, che sia una democrazia e che la sua « condotta sia stata moralmente superiore a quella degli avversari ». Le tesi dell’articolo – per “corroborare” le quali le gli autori citano anche alcuni miei libri, travisandone il senso – sono assolutamente indifendibili. Soffermiamoci su due punti del loro discorso. Analizzando il conflitto, essi scrivono che: «La corrente predominante della leadership sionista non era affatto interessata a creare uno Stato binazionale o ad accettare una divisione permanente della Palestina […] Per raggiungere il loro scopo i sionisti dovevano espellere una gran numero di arabi dal territorio dove sarebbe sorto lo Stato di Israele ». Gli autori stanno cioè dicendo che, in realtà, il movimento sionista non ha mai voluto una soluzione di compromesso e non e non è mai stato disposto ad accettarla (una critica che , come vedremo, andrebbe di fatto rivolta non ai sionisti, bensì al movimento nazionale palestinese). Ora, è vero che il sogno originario del sionismo era quello di creare in Palestina uno Stato ebraico – la Terra di Israele – e non un’entità binazionale. I sionisti non volevano certo fondare un altro Stato dove gli ebrei rappresentassero solo, come in tutti i paesi islamici, una minoranza della popolazione. Il fatto che fossero disposti o meno ad accettare l’ipotesi di una spartizione, però, è tutto un altro problema. Mearsheimer e Walt lasciano intendere che la leadership sionista ha sempre rifiutato la prospettiva di una divisione territoriale, quella soluzione giusta e ragionevole che – aggiungono – nemmeno Barak e Clinton hanno saputo offrire ai palestinesi nei recenti colloqui di pace del 2000. Ciò costituisce una palese distorsione della verità storica. Fino al 1936-37, la corrente predominante del sionismo ebbe senz’altro come obiettivo la creazione di uno Stato ebraico esteso a tutta la Palestina; durante la rivolta araba del 1936-39 ci fu però un sostanziale ripensamento di queste posizioni. Nel luglio 1937, la commissione britannica Peel raccomando la spartizione della Palestina: lo Stato ebraico avrebbe dovuto estendersi su circa il 20 per cento del territorio palestinese, la maggior parte del quale sarebbe ricaduto sotto la sovranità araba. Fu inoltre quella commissione a raccomandare l’allontanamento – con la forza se necessario – dei cittadini arabi dall’area destinata allo Stato d’Israele. Nel movimento sionista ci furono accesi dibattiti, ma alla fine – sotto la guida di David Ben Gurion e Chaim Weizman – esso accettò il principio della spartizione come una base per le trattative, pur respingendo la clausola del 20 per cento. Se è vero che nel 1937 Ben-Gurion nutriva ancora la speranza che questa spartizione sarebbe stata soltanto il “primo passo” di una futura espansione sionista, è altrettanto vero che negli anni successivi – con il deteriorarsi della situazione europea e il bisogno di trovare un rifugio sicuro per gli ebrei – resero più sobrie le aspettative del movimento. Così, nel novembre 1947 i sionisti - tranne alcune frange minoritarie – avevano ormai pienamente accolto l’idea della necessità della divisione e appoggiarono la risoluzione votata dall’Onu. Israele combatté la guerra del 1948 avendo come obiettivo la spartizione della Palestina; che fu di fatto l’esito del conflitto , nonostante la superiorità militare israeliana. E, fino al 1967, la sua posizione fu generalmente quella di accettare la realtà della divisione territoriale, come un dato di fatto ormai consolidato. Come sappiamo, la vittoria israeliana del 1967 riaccese la controversia e rafforzò per un po’ di tempo le posizioni di coloro che si opponevano alla spartizione in nome del “Grande Israele”, fino alla loro sconfitta definitiva con l’elezione - nel 1992 – del primo ministro Rabin. Anche dopo la morte di Rabin, la soluzione dei due Stati è rimasta l’obiettivo di tutti i suoi successori – Peres, Barak e, in particolare, Sharon e Olmert – con la sola eccezione di Netanyahu; un obiettivo condiviso dalla maggior parte dell’opinione pubblica israeliana. Al contrario, il movimento palestinese – da Al Hussein a Yasser Arafat – ha sempre rifiutato la soluzione dei due Stati: ha respinto i piani di spartizione del 1937 e del 1947, il “piano di autonomia avanzato da Begin e Sadat nel 1978 e l’offerta di Clinton e Barak nel 2000. Esso ha sempre sostenuto – e continua tuttora a farlo, per bocca di Hamas – che gli ebrei non hanno diritto di occupare nemmeno un singolo centimetro quadrato della terra palestinese. Veniamo ora alla questione del “trasferimento” . E’ vero, come scrivono Mearsheimer e Walt, che «l’idea del trasferimento è nata assieme al sionismo moderno»; ma si tratta comunque di un problema complesso, dove è di centrale importanza vedere esattamente che cosa hanno detto e fatto i diversi protagonisti, e perché. Tra il 1881 e la metà degli anni Quaranta, i leader sionisti – da Herzl fino a Ben-Gurion e Weizmann – espressero occasionalmente il loro appoggio all’idea di “trasferire” gli arabi fuori dai confini del futuro Stato ebraico. Occorre però tenere presenti tre fatti. Occorre però tenere presenti tre fatti. In primo luogo la leadership sionista non integrò mai questa idea nella piattaforma politica vera e propria del movimento. In secondo luogo, i capi sionisti erano generalmente convinti che in Palestina gli ebrei sarebbero comunque diventati maggioranza grazie all’immigrazione. Infine, l’idea del trasferimento venne di fatto ripresa dai leader sionisti in occasione di particolari momenti storici di crisi: in risposta alle ondate di violenza scatenate dagli arabi, che sembravano minare alle radici la possibilità della pacifica convivenza arabo-israeliana, e la risposta alla violenza antisemita in Europa, che per i sionisti rendeva necessaria la conquista di un porto sicuro dove gli ebrei minacciati potessero rifugiarsi; e non certo solo per poi ritrovarsi esposti alla violenza omicida degli arabi. Inoltre, lo stesso muftì al- Hussein perseguiva una politica decisamente espulsionista. Egli dichiarò più volte che nel suo futuro Stato palestinese sarebbero stati accolti come cittadini soltanto quelli ebrei che risiedevano in Palestina dal 1917: in pratica, 60mila-80mila persone. Per quanto riguardava gli altri (circa l’80 per cento della popolazione ebraica), i membri della commissione Peel compresero che la sua intenzione era quella di espellerli, o forse anche peggio. All’inizio degli anni Quaranta, in seguito ai crescenti episodi di violenza, era ormai chiaro a tutti che la divisione della Palestina andava accompagnata da un allontanamento degli arabi dalle terre del futuro Stato israeliano. La forte minoranza araba rimasta al suo interno avrebbe infatti mantenuto un atteggiamento eversivo, facendo naufragare ogni tentativo di convivenza. Fu per questo motivo che la soluzione del trasferimento venne sostenuta non solo dai capi sionisti, ma anche dai funzionari britannici e dai leader arabi moderati. Nel 1947-48, gli arabi palestinesi respinsero la risoluzione dell’Onu sulla spartizione e scatenarono una sanguinosa guerra civile, seguita da un’invasione panaraba. Dal canto suo, la leadership sionista aveva accettato il piano di divisione, che prevedeva l’assegnazione del 55 per cento dei territori della Palestina allo Stato ebraico; con una popolazione composta da 550mila ebrei e 450mila arabi. Fino alla fine del marzo 1948, dopo quattro mesi di attacchi palestinesi, il movimento sionista mantenne come proprio obiettivo la creazione di uno Stato ebraico con una forte minoranza araba al suo interno, e l’Haganah (la milizia ebraica) perseguì una politica difensiva, evitando di colpire i civili. Gli ordini erano di muoversi tenendo conto di «tutti i diritti, le necessità e la libertà degli arabi residenti nello Stato ebraico». Fu solo ad aprile che l’Haganah, di fronte alla minaccia di un’invasione da parte della Lega Araba, passò all’offensiva iniziò a espellere i palestinesi. Inutile dire che l’invasione panaraba del 15 maggio non fece altro che esacerbare gli animi degli ebrei nei confronti di coloro che avevano chiamato gli invasori con l’unico scopo di «ricacciarli in mare». Nonostante questo, però, Israele non adottò mai una politica di espulsione generalizzata. La nascita del problema dei profughi palestinesi fu quindi in realtà la diretta conseguenza di una guerra che era stata scatenata dagli arabi e in cui gli ebrei videro messa in gioco la loro stessa sopravvivenza. (traduzione di Daniele Didero)
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