Tzipi Livni, Condi Rice e le altre: un ritratto delle "signore" della diplomazia e un' intervista ad Amos Oz su Hamas, l'Iran e il fanatismo
Testata: Il Foglio Data: 13 maggio 2006 Pagina: 3 Autore: Paola Peduzzi e Rolla Scolari Titolo: «IL SESSO FORTE DELLA DIPLOMAZIA - Amos Oz ci parla di Iran, Hamas, punti esclamativi e profezie»
Da pagina 3 dell'inserto del FOGLIO di sabato 13 maggio 2006:
L’arte della diplomazia tosta passa tra le gonne di ministre e cancelliere toste. Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Israele preferiscono mandare avanti longuette, spacchi e tacchi, tailleur-pantalone e messe in piega, fard e mascara per incoraggiare il dialogo e scoraggiare le tensioni, fare la voce dura e poi guardarsi intorno con sguardi e sorrisi quasi innocenti. Le gonne spopolano ai vertici forti dei paesi forti: c’è la granitica Condoleezza Rice al dipartimento di stato americano, c’è la pugnace Tzipi Livni a capo della diplomazia israeliana, c’è l’ex goffa Angela Merkel, cancelliera tedesca che vive una luna di miele internazionale a est e a ovest, e c’è la new entry, Margaret Beckett, la nuova inquilina del Foreign Office inglese. E se l’abito non fa il monaco, la gonna fa la ministra, o piuttosto racconta la sua fine abilità diplomatica. Beckett non ha fatto in tempo a essere nominata – peraltro in uno dei rimpasti più cruenti dei dieci anni blairiani – che è stata subito spedita, con un plico di informazioni sotto braccio, a New York a occuparsi della questione iraniana, dei diritti umani, del Darfur. Non proprio una bazzecola insomma, soprattutto per una signora che negli ultimi anni si è occupata di ambiente e agricoltura (e prima ancora di sindacati). Ma il premier inglese Blair, che la conosce bene e da tanto tempo, sa che Margaret è una che impara in fretta e che ha innata l’arte della negoziazione: sa dialogare, suggerire, sorridere e ottenere quel che vuole. E infatti dopo le parecchie ambiguità del suo predecessore – quel Jack Straw vittima e artefice di una relazione speciale con i mullah di Teheran – Margaret ha subito spiegato le cose come stanno, in perfetto equilibrio con i suoi interlocutori europei e americani, con il suo sorriso dolce che si trasforma con opportuna facilità in forte risata, e gli orecchini colorati a illuminarle il viso, immancabili. In un tailleur azzurro sgargiante ha già cambiato un pochino le parole, giusto quel pizzico per far capire di essere andata a New York non a farsi un giro perlustrativo, come ha poi detto scherzando con i cronisti, quasi fosse un vezzo quello di fare la svampita che poi in realtà capisce tutto. Se Straw tuonava dicendo che un attacco al regime dei mullah è “inconcepibile”, Beckett ha sussurrato che l’opzione militare “non è nelle nostre intenzioni”. Dettagli, si dirà, ma la diplomazia non è roba da maschi muscolosi, è fatta di sfumature leggiadre, non è fatta di diciotto pagine di sproloqui, è fatta di interventi seri e decisi. Poi Margaret, con il viso provato dal fuso orario e dalla prima importante uscita da capo della diplomazia britannica, è tornata a Londra. Salendo sull’aereo qualcuno le ha chiesto quale sarà il suo prossimo passo dopo il vertice newyorkese e lei, deliziosa: “Vivere di rendita per il resto della mia vita”. Quando è atterrata si è fatta di nuovo gentilmente intervistare e ha spiegato: “Ho navigato un po’ a vista, come mi ha detto uno dei miei collaboratori questa mattina, ma l’ho fatto con una certa grazia”. Margaret è la più vecchietta del gruppo delle signore della diplomazia in gonna. Ha sessantatré anni elegantemente portati e un’esperienza solida nella politica: per questo sa scherzare con i giornalisti, prendersi poco sul serio, se non quando è strettamente necessario. Ne ha viste un po’ di tutti i colori, sempre da laburista, ma si è ritirata soltanto per qualche mese dalla passione della sua vita. Fu nel 1979, quando cominciava l’ascesa di un’altra donna di ferro, anzi, la Donna di Ferro, Margaret Thatcher. Impaurita e sdegnata dalla rivoluzione liberista, Beckett s’allontanò dall’arena, per tornarci poco dopo e non lasciarla più, neppure quando il Labour è passato da Old a New e lei si è anche battuta – perdendo – con quei giovanotti vigorosi che pensavano di cambiare un’istituzione vecchia di sempre. Uno di questi era Tony Blair (l’altro John Prescott, quello che tira pugni ai giornalisti invadenti e fa pubblica ammenda per la sua storia con una segretaria, tanto per capirci), del quale poi Margaret è diventata stretta collaboratrice, una delle poche sopravvissute dei tanti cambi all’interno del governo inglese. La fedeltà al proprio capo è una delle doti che Margaret e le altre hanno e sanno gestire con grande abilità, così che alla fine sono i capi a diventare dipendenti da loro, e non viceversa. Certo, Angela Merkel di capi non ne ha, ma guida una grande coalizione, dove tutti si sentono un po’ padroni di qualcosa, o almeno vogliono apparire tali. E Angie, con la flemma che la contraddistingue, ha imparato a essere fedele alla sua linea sembrando fedele a tutti: un’affidabile, insomma. Così, Angela ha saputo conquistare la Germania, “the sick man of Europe”, i tedeschi e pure la comunità internazionale, che tutto si aspettava tranne una cancelliera che parla schietto, che in pochi mesi ridisegna la politica estera del paese, che addirittura si fa mediatrice, tra un viaggio negli Stati Uniti, un tailleur rosso per il presidente americano, e una visita a Mosca, con un completo nero, per Vladimir Putin, sulla questione iraniana e mette la Germania, dossier nucleare di Teheran alla mano, a sedere e a decidere (se qualcosa mai si deciderà) assieme ai cinque membri del Consiglio di sicurezza. E poi, sempre flemmatica, l’ex signora goffa che tutti vivevano come una scialba funzionaria di partito, dice che no, lei fa anche senza questa Costituzione europea e magari fa anche a meno di un po’ d’Europa, ma non tradisce, resta fedele, riscriverà il Trattato non appena prenderà in mano la presidenza europea, a luglio. Poi ha paragonato Mahmoud Ahmadinejad ad Adolf Hitler e quando il presidente iraniano ha dichiarato di voler eliminare Israele dalla cartina geografica ha detto: “L’Iran è andato oltre la linea rossa. Lo dico come cancelliere tedesco. Un presidente che mette in questione il diritto d’Israele a esistere, un presidente che nega l’Olocausto, non può aspettarsi di ricevere nessuna tolleranza dalla Germania”. E poi, da buona donna dell’est, fedele ai capi ma con un occhio al futuro, ha denunciato i brogli elettorali in Bielorussia e messo in questione la vittoria di Aleksandr Lukashenka e con la stessa soave signorilità ha detto in faccia a George W. Bush e agli stivali neri con il tacco a spillo di Condi che non è d’accordo con le detenzioni di Guantanamo e con buona parte della politica americana in Iraq. Del resto fedele al capo – e ai suoi stivali neri da dominatrice – e straordinariamente indipendente è proprio lei, Condi, che porta in giro con sé di qua e di là nel mondo (sono tutte instancabili globetrotter queste dame, altro che gli uomini sedentari) la ruvida e concreta politica di George W. Bush rendendola più graziosa con un trench di pelle, ma quella è e rimane, anche nelle differenze stilistiche, nei trabocchetti di cui è costellata la strada diplomatica: mai una sbavatura, mai un’incoerenza, mai un “ah no però io non la penso proprio come lui”. Comunità d’intenti trasformata – migliorata – dalla femminilità. Anzi, a volte i ruoli si ribaltano e visto che Condi può dire quasi tutto perché poi è talmente carina nei modi e così generosa nell’esibirsi sulle musiche concilianti del suo pianoforte che gli animi si rilassano, Bush finisce a volte per delegare a lei anche le strategie più forzute e aggressive. Lo si vede in questi giorni con l’Iran: il presidente ribadisce e ribadisce e ribadisce la linea della diplomazia in asse con Europa e Nazioni Unite, il segretario di stato rilancia dicendo che sì, la diplomazia è la via, ma alla fine del tunnel ci sono le sanzioni e chissà che altro – “che non è nelle nostre intenzioni” come dice la neocollega Beckett – cioè non si parla tanto per parlare. Ma la più fedele è Tzipi Livni, ad Ariel Sharon prima e ora al nuovo premier israeliano, Ehud Olmert. Anche lei, come Beckett, non era un volto conosciuto al di fuori del suo paese, ma in poco tempo si è guadagnata spazio e attenzione. Rispetto alle altre del gruppo, Tzipi ha più stile che fascino, lo stile – raccontano i suoi collaboratori – di chi è stato luogotenente dell’esercito israeliano e ha servito quattro anni nelle file del Mossad, i servizi segreti. Di gonne, lei, ne indossa poche. Alta, imponente, Tzipi preferisce i tailleur pantalone, scuri, lineari, rigorosi – come fa spesso anche Angela Merkel – impreziosendoli con tocchi di femminilità. Gioielli rari e molto classici: due perle alle orecchie, dietro la spartana messa in piega, liscia sul taglio corto, che non nasconde però un naso importante. E’ raro trovare una sua fotografia di profilo. Il trucco è quasi inesistente, tanto che durante la campagna elettorale, l’indispensabile ma alquanto acceso fard sulle guance finiva per stonare con la sua immagine austera. Come i suoi completi, la diplomazia di Tzipi è efficace, intelligente, a tratti un po’ fredda. Sicuramente abbastanza mascolina, come lei, in quel mix tra aggressività e dolcezza di cui Condoleezza è originaria esportatrice. Convenevoli baciucchianti e tacchi a spillo da dark lady per l’americana, voce imperiosa e capelli sistemati con delicatezza da Olmert, davanti agli obiettivi dei fotografi, per l’israeliana. Non che non sia stata fedele agli ideali sionisti della sua famiglia, che sognava la Grande Israele. Come Sharon, Tzipi sa che soltanto il padre degli insediamenti, quello che li ha voluti e incoraggiati, ha potuto portare a termine lo storico ritiro dalla Striscia di Gaza e sa anche che soltanto nel nome della sua eredità lei e Olmert porteranno a termine quello dalla Cisgiordania, prima di quanto si creda. Sharon mandava avanti lei, la fedele Tzipi, a conferenze e rally, per convincere gli israeliani della necessità del disimpegno. Lei, con grande pazienza, spiegava agli israeliani attoniti l’impensabile e l’indicibile. Nonostante sia figlia dei ranghi dell’aristocrazia sionista, è stata la prima a credere al progetto di Arik, e quando il vecchio leader ha deciso che, per portare avanti il suo piano, doveva lasciare il suo storico partito, il Likud, Livni è stato il primo politico a seguirlo. Non ci ha pensato due volte. Si è buttata nell’avventura di Kadima, il neopartito fondato dall’ex premier, forse con un pizzico di irrazionalità che stona con i suoi pantaloni perfettamente stirati e con i suoi colletti bianchi perfettamente inamidati. Si è tuffata in una missione pericolosa e dall’esito incerto con la tenacia di un soldato che ubbidice al proprio generale senza fare troppe domande. E ha vinto. Oggi, il secondo politico più potente d’Israele è un’ex agente del Mossad, sposato, con due figli, che si appresta a spiegare al resto del mondo, nei viaggi che farà nei prossimi mesi, che Israele, a breve, avrà nuovi confini, e che non scherza, come non scherzava Sharon quando diceva che si sarebbe ritirato da Gaza. La femminilità nella diplomazia ha la capacità di plasmarsi, a seconda degli interlocutori, delle situazioni, dell’atmosfera. Piano piano, a furia di conoscerle, queste dame, un dettaglio del loro look diventerà un messaggio ben chiaro. Basta prendere Tzipi. C’è chi l’ha vista, nel suo ufficio, leggere i giornali fumando una sigaretta, con i piedi sul tavolo. Ti aspetti poi di vederla tutta una moina a chiacchierare fitto fitto con Condoleezza, non si sa bene di che cosa, in uno dei loro ultimi – decisivi – incontri? Eppure. E’ che Livni è creatura dell’aristocrazia della destra storica israeliana, è figlia di un combattente del sionismo revisionista, di un membro dell’Irgun, finito nelle carceri inglesi per aver sabotato le linee ferroviarie di sua maestà. Ancora oggi, nel movimento giovanile d’estrema destra del Betar, cantano un inno dedicato a un’eroina di nome Sarah: la madre di Tzipi, Tzipora all’anagrafe, che dopo Golda Meir è la seconda donna ministro degli Esteri nella storia dello stato d’Israele. E’ un’eredità che non si scorda, nei progetti politici e nel modo di atteggiarsi. Come i suoi tailleur, la politica di Livni è dura, ma trovano spazio le scollature e le camicie bianche sbottonate: perché, figlia di un padre sulla cui lapide è incisa una mappa d’Israele che include le due rive del Giordano, è stata la più tosta sostenitrice di Ariel Sharon sul ritiro dalla Striscia di Gaza e oggi è la più tosta sostenitrice di Ehud Olmert sul disimpegno dalla Cisgiordania. I padri – veri e professionali – sono una costante. Del resto pletore di psicanalisti hanno avuto un senso anche per questo. Margaret non ha un padre da ricordare: è morto quando lei aveva 12 anni, faceva il falegname. Ha un marito, Leo, che le ha fatto un po’ da tutti i ruoli, sempre vicino, sempre attento. Ma è uno dei padri professionali di Condoleezza a fare più scalpore, perché è come una premonizione, come un destino scritto prima, già deciso nel solco della tradizione o, chissà, della competizione. Anche in questo caso c’entra una donna, anzi, una delle donne della diplomazia in tempi in cui era ancora piuttosto solitaria e di certo non memorabile per la sua femminilità. E’ Madeleine Albright, segretario di stato dell’ex presidente Bill Clinton, che ha appena ricordato in un’intervista al New York Times che suo padre è stato il professore di riferimento di Condoleezza. Josef Korbel, diplomatico d’orgine ceca poi preside della Scuola di relazioni internazionali all’Università di Denver, ha formato la figlioletta a suon di aneddoti geopolitici e poi anche la giovane Condi. Tanto che quando Korbel è morto, nel 1977, arrivò a casa, insieme con i tantissimi fiori, una ciotola di ceramica a forma di pianoforte. “E’ da parte della studentessa preferita di tuo padre, Condoleezza Rice”, disse mamma Albright a Madeleine. Padri vigorosi, fedeltà ai capi, la passione della politica. E’ questo miscuglio che fa delle fanciulle un gruppo di grandi signore. Poi ci sono le cifre personali, i caratteri, le manie, le scivolate anche. Per esempio, la palma dello stile un po’ così, un po’ meno curato, va ad Angela Merkel, anche se da ultimo già ha cominciato a stupire un pochino di più (e qui non si fa riferimento alle foto del suo didietro rubate a Ischia a tradimento). Non è che si vesta male, è che non si veste bene. Mettiamola così: il suo stile non dice niente, un po’ sciatto, con quelle giacche troppo lunghe, quei pantaloni troppo larghi, le gonne che non cadono proprio bene e l’orlo un po’ troppo strascicante. E anche quelle scarpe, con il tacco sì, ma che non osa, e pure un po’ sformate. D’altronde, dice poco anche lei, e questo, oltre agli orli, le è costato in campagna elettorale l’etichetta di politico poco carismatico. Eppure, dopo sei mesi, dai suoi silenzi è uscito parecchio. Nessuno l’avrebbe mai detto osservando i suoi tailleur dai colori improbabili, niente a che vedere con l’arancione sfoderato da Beckett mentre andava zampettando sui suoi tacchi alti a farsi nominare da Blair al nuovo ministero. Ma Angie, zitta zitta, mentre ancora tutti si agitavano dopo il confuso risultato delle elezioni, ha aspettato di prendersi il suo posto di cancelliere. Ora, quando legge sui giornali i commenti sulla sua piega moscia, dice: se i tedeschi non hanno nulla di meglio cui pensare se non la sua acconciatura sono persone molto fortunate. I compagni di classe della figlia del pastore luterano della Germania dell’est la ricordano che studiava pure alla fermata dell’autobus. Non proprio una “nerd”, ma poco ci manca. Nessuno ricorda un suo fidanzato. I registri della Stasi notano i suoi blue jeans all’americana e la sua passione per la musica occidentale. “With no loving in our souls and no money in our coats, you can’t say we’re satisfied”, canta Mick Jagger in “Angie”, la canzone della sua campagna elettorale. Non si sa ancora bene se abbia soddisfatto i tedeschi, ma sicuramente, in politica internazionale non ha soddisfatto le aspettative di tutti – politici, diplomatici, cancellerie e mass media – che si preparavano al debutto di un’impacciata e poco carismatica donnina e si sono trovati davanti a una signora che sa cosa vuole e sa pure come dirlo. Un po’ scomoda, insomma, come le altre sue colleghe Condi, Tzipi, Margaret. Le signore delle relazioni internazionali che stanno imponendo il loro linguaggio e i loro sorrisi non fanno rimpiangere nulla di quello che era il grigio degli abiti maschili prima del loro arrivo. Anzi, finisce che le si vorrebbe dappertutto delle signore così, le toste diplomatiche dei paesi forti
Da pagina 3, un'intervista ad Amos Oz:
Arad (Israele). Amos Oz non ha bisogno di introduzioni. L’acclamato scrittore israeliano non è soltanto un romanziere, ma anche una commentatore internazionale di prestigio del conflitto israelo-palestinese. Fondatore di “Peace now”, Oz è un rappresentante delle colombe israeliane, che “si oppongono all’occupazione” e che sono a favore del disimpegno israeliano dalla Cisgiordania e della soluzione negoziata dei “due stati”. In questa intervista esclusiva al Foglio, Oz parte dalla tesi del suo ultimo libro, intitolato “Contro il fanatismo” (Feltrinelli), nel quale definisce un fanatico come “un punto esclamativo che cammina”. Con la sua acuta e gentile ironia, Oz spiega che “un fanatico è una persona che ha una risposta a tutte le domande, che non ha dubbi, che è convinto di cambiare le altre persone”. Amos Oz ha scritto questo libro qualche tempo prima della vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi, il gennaio scorso, ma il gruppo che guida il governo nei Territori rientra del tutto nella sua classificazione: “Essenzialmente è un movimento fanatico”. Nonostante molti siano d’accordo con lui in questa definizione, ci sono altri – come l’ex leader del Mossad, Ephraim Halevy – che pensano che Hamas possa cambiare la sua natura, mettersi sulla strada della pace e riconciliarsi con Israele. “Non ne ho idea – dice Oz – So che sia gli individui sia le organizzazioni possono cambiare e sarei molto felice se anche Hamas si traformasse, ma finora non ho visto alcun segnale in questo senso. Non mi sento di fare profezie, è così difficile essere profeti qui, nella ‘Terra dei Profeti’. E poi c’è troppa concorrenza nel business dei profeti”, ironizza. Oz ha spiegato nel suo libro che “nell’ultima decade, parte dei movimenti palestinesi è passata dal fanatismo al pragmatismo”: la vittoria elettorale, il continuo rifiuto ad accettare le condizioni imposte dalla comunità internazionale – il riconoscimento d’Israele prima di tutto – e la giustificazione arrivata da Hamas all’attentato che il 17 aprile ha ucciso nove persone a Tel Aviv fanno sorgere più di un dubbio su questo “passaggio al pragmatismo”. Ma Oz è convinto che la maggioranza non sia Hamas, perché il gruppo palestinese “ha ottenuto il 41 per cento dei voti a gennaio, il 59 per cento dei palestinesi ha votato contro Hamas. E’ soltanto per colpa del complicato sistema elettorale dell’Anp che oggi il gruppo estremista controlla la maggior parte dei seggi del Consiglio legislativo. Ma la maggioranza dei palestinesi ha votato per le alternative pragmatiche, non per Hamas”. Alle elezioni israeliane di fine marzo, Oz ha sostenuto il Meretz Party di Yossi Beilin, la sinistra pacifista del paese, che ha ottenuto soltanto cinque seggi. “Mi aspettavo qualcosa di più – ammette lo scrittore – Ci sono rimasto un po’ male, ma nel suo complesso il risultato del voto israeliano è stato buono, perché il popolo ha scelto il pragmatismo e ha detto addio all’ambizione della Grande Israele. Gli estremisti israeliani, i falchi, hanno perso le elezioni, mentre i pragmatici le hanno vinte”. Il vincitore è Ehud Olmert, il neopremier che ha formato un governo di coalizione con il suo partito, Kadima – fondato da Ariel Sharon – il Labor di Amir Peretz, i Pensionati e lo Shas ultraortodosso. Ma secondo Oz, Olmert è la “second best solution”, la seconda scelta tra le soluzioni migliori, perché “la miglior cosa è un accordo negoziato tra israeliani e palestinesi e anche se questo non è possibile a causa del fanatismo di Hamas, credo che ci potrebbe essere un’intesa negoziata tra Israele e la Lega araba. Si potrebbe organizzare un referendum tra i palestinesi e sono sicuro che loro sarebbero d’accordo nell’accogliere un patto negoziato tra Israele e le nazioni arabe. La scelta unilaterale è soltanto la seconda o la terza opzione, è l’ultima spiaggia e non la soluzione ideale”. Uno degli slogan più famosi di Amos Oz recita: “I palestinesi e gli israeliani sono di fronte a una scelta: o morire in nome dei loro principi o accettare compromessi con le lacrime agli occhi”. E’ valido ancora oggi, “non so se siamo più vicini a un compromesso, ma penso che l’unico modo per entrambe le parti per arrivare alla pace sia un compromesso a denti stretti, un compromesso non felice. Esistono compromessi fatti così, ma senza di questi non ci sarà un lieto fine. L’alternativa è una soluzione shakespeariana, con il palcoscenico ricoperto di cadaveri”. Quando era giovane Oz si definiva un “fanatico che aveva subito il lavaggio del cervello”: “Pensavo che il mondo fosse o nero o bainco, ero convinto che Israele avesse ragione al cento per cento e che ogni oppositore, ogni critico, ogni avversario fosse un mostro. Avevo un tale zelo missionario che ho cercato di convertire ogni cosa e ogni persona che ho incontrato”. Ma quando ha perso “l’innocenza da ragazzino” e ha scoperto che “la vita è un pochino più complicata”, ha cambiato idea. E ha cominciato a scrivere, a battersi, a denunciare. Con un messaggio per tutti: “Riconoscere l’altro e avere un po’ di senso dell’umorismo sono antidoti ottimi al fanatismo. Non ho mai incontrato un fanatico con senso dell’umorismo e non ho mai visto una persona con senso dell’umorismo trasformarsi in un fanatico”. Un’altra grande minaccia per Israele è l’Iran. Negli ultimi giorni il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha ridetto che Israele deve scomparire, ieri l’Agenzia atomica dell’Onu ha rivelato l’esistenza di tracce di “uranio altamente arricchito”. La diplomazia continua a lavorare – circola una nuova bozza della troika europea che chiede di fermare ogni attività d’arricchimento – ma la sprezzante aggressività del regime di Teheran continua ad aumentare. “Sono sconvolto dalle parole del presidente iraniano – dice Oz – Sono preoccupato dal potenziale nucleare del regime dei mullah e dal suo fanatismo. La combinazione delle tre cose, la distruzione di Israele, l’intenzione di ottenere una potenza nucleare e la natura fanatica della leadership iraniana, è senza dubbio mortale”.
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