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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Imre Kertész - Kaddish per il bambino non nato 10/05/2006
Kaddish per il bambino non nato – Imre Kertész
Edizioni:  Feltrinelli

Adorno si chiedeva se fosse ancora possibile scrivere poesie dopo
Auschwitz. Imre Kertész, che ad Auschwitz c’è stato nel 1944, radicalizza
ancor più la domanda. Si può mettere al mondo un figlio, in questo mondo
che ha ospitato i Lager, e i suoi volonterosi carnefici? E la risposta è un
bellissimo romanzo appena tradotto in italiano, Kaddish per il bambino non
nato. Scritto nel 1990, quando l’Ungheria aveva imboccato la via della
democrazia, è l’ultimo capitolo della trilogia composta da Essere senza
destino e Fiasco.
Il protagonista è uno scrittore, traduttore, editore, sopravissuto ai campi
di sterminio nazisti. All’inizio del romanzo, passeggia in un bosco con un
amico filosofo che gli domanda se ha un figlio, con l’innocenza e la
villana schiettezza dei filosofi. Lui risponde di no. Ulula un no dolente,
furioso, ferito. Così come aveva detto no, molti anni prima a sua moglie,
ora diventata ex moglie. Tra questi due no, si distende il romanzo, un
monologo interiore alla maniera di Bernhard (peraltro citato).
Se Kaddish, nell’ebraismo, è una preghiera che si canta per i morti, il
personale Kaddish del premio Nobel Kertész è per il bambino che non ha mai
voluto generare dopo che in lui era morta la fiducia nel futuro, in questa
terra, in questa umanità. E il lungo soliloquio tenta di motivare il secco
rifiuto di paternità passando attraverso varie tappe, narrative,
ontologiche, esistenziali. Non c’è solo l’orrore dei campi, ma anche il
grigiore del totalitarismo, l’avvilente mestiere di scrivere nel socialismo
reale, la malinconia dell’amore, la misteriosa identità ebraica, per uno
nato e cresciuto nell’ebraismo laico e assimilato dell’Ungheria anni
Trenta.
Kertész  ha detto che ogni volta che “pensa a un nuovo romanzo gli torna in
mente sempre Auschwitz”. E quell’esperienza riaffiora anche qui. Sembra
inspiegabile secondo le normali categorie etiche.Ma c’è davvero da stupirsi
tanto? I Lager sono davvero un buco nero nella coscienza umana? Anche
stavolta Kertész urla un no radicale. Il male non è incomprensibile. Ci
sono un sacco di spiegazioni logiche, l’interesse, l’avidità, l’eccidia, la
brama di potere. E’ il bene che resta un enigma. Il protagonista di Kaddish
se n’è reso conto quando era nei vagoni piombati. C’era con lui un
“maestro” che aveva ricevuto per sbaglio la sua razione di cibo. Quel
surplus gli avrebbe garantito la vita. Invece rinunciò. La restituì a lui,
giovane bambino smarrito nella calca dei carri. Perché? Perché quel maestro
fece quello che non avrebbe mai dovuto fare ubbidendo alla logica, alla
fame, all’istinto di sopravvivenza? Qui non c’è spiegazione. Non c’è mai
spiegazione al bene. Il mistero sono le vite dei santi, non la macchina
assassina dei campi.  Chi ha fronteggiato l’orrore si ritrova però sterile.
Come se la straordinaria banalità del soffrire esaurisse per sempre la
forza della vita. Il protagonista, che non ha voluto essere padre, non è
riuscito a vivere nemmeno l’amore con la moglie, a farla partecipe delle
sue ferite. Quando lei aveva cercato di capire, di ascoltare le sue storie
da sopravissuto, lui le aveva lasciato la mano, prigioniero autistico del
proprio passato. Un messaggio lucido e disperato, che apre uno squarcio
terribile sull’animo dei sopravissuti. Che ci aiuta a comprendere, forse, i
tardivi suicidi d’un Primo Levi o d’un Bettelheim, figure sempre esemplari
per equilibrio nel mestiere di vivere.
Ma nel complesso rapporto con l’ontologia del male, che ha segnato la vita
e la carriera dello scrittore ungherese, c’è anche, sempre, un guizzo di
speranza. Il Kaddish che ora leggiamo è, idealmente, il manoscritto che
nella storia raccontata da Fiasco veniva gettato nel fuoco e distrutto.
Ancora:l’esergo di Kaddish sono un paio di versi di Celan. E’il poeta che
alla domanda di Adorno “si può ancora scrivere poesia dopo Auschwitz?”
aveva risposto scrivendo.


Bruno Ventavoli
Tutto Libri – La Stampa

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