Di seguito l'editoriale del FOGLIO di mercoledì 10 maggio 2006 sulla lettera di Ahmadinejad a George W. Bush:
La “storica” apertura postale dell’iraniano Ahmadinejad in realtà era l’ennesima presa per i fondelli, condita con il solito concentrato di deliri antisemiti e negazionisti dell’Olocausto. Del resto, che cos’altro poteva essere? Eppure, per il momento, è riuscita a ottenere ciò a cui mirava: prendere tempo e dividere la cosiddetta comunità internazionale riunita al Palazzo di Vetro per decidere, diciamo così, come affrontare le violazioni nucleari dei turbanti atomici. Cina e Russia, infatti, hanno detto di no alla bozza di risoluzione che avrebbe voluto imporre una prima serie di sanzioni diplomatiche ed economiche al regime di Teheran. Contemporaneamente, nello stesso Palazzo di Vetro, ieri è nato il nuovo e, in teoria, riformato Consiglio dei diritti umani che ha preso il posto della discreditata, anche per i canoni Onu, Commissione di Ginevra. Il risultato della tanto strombazzata riforma di Kofi Annan è stato che i principali violatori dei diritti umani sono stati eletti, esattamente come prima, nell’organo dell’Onu che in teoria dovrebbe vigilare sulle violazioni dei diritti umani. Cina, Arabia Saudita, Cuba, Pakistan, Russia ci saranno, mentre l’Iran spera nel secondo round di votazioni.
Tornando al dossier Iran, l’armata dei nuovi appeasers – 68 anni dopo la Conferenza di Monaco che ha aperto le porte ad Adolf Hitler – alla notizia della lettera di Ahmadinejad a Bush aveva gongolato perché, a loro dire, questa dimostrava come con gli ayatollah si potesse trovare un accordo. Ieri il contenuto della lettera ha fatto svanire speranze e illusioni. Teheran non si è mossa di un millimetro rispetto ai progetti atomici e con toni e argomenti da fanatici religiosi ha continuato a contestare l’esistenza di Israele e si è spinta fino ad avanzare sospetti sulla corresponsabilità di Washington negli attentati dell’11 settembre, come in un bel film di Michael Moore. A leggere la lettera, tono apocalittico a parte, la prima cosa che viene a galla è una certa sovrapponibilità tra l’analisi terzomondista, antioccidentale e antiamericana di Ahmadinejad e quella di un’ampia fetta della sinistra occidentale. Ma nelle diciotto pagine scritte da Ahmadinejad ci sono due frasi che risultano convincenti anche per queste colonne. La prima è un atto d’accusa alla democrazia e al liberalismo che dimostra come Ahmadinejad, al contrario di buona parte della sinistra, abbia capito quale sia l’arma principale contro l’islamismo. La seconda frase, involontariamente autobiografica, è questa: “La storia ci dice che i governi repressivi e crudeli non sopravvivono”. Appunto.
A pagina 2 dell'inserto un intervista Victor David Hanson . Ecco il testo:
Mahmoud Ahmadinejad si aspettava una risposta dagli Stati Uniti. Due giorni fa ha spedito una lunga lettera – 18 pagine – a George W. Bush. Il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, ha detto che la missiva non contiene alcuna proposta di discussione sul programma nucleare iraniano. L’esperto militare Victor Davis Hanson, che ha firmato il nostro appello internazionale sull’Iran, non appare impressionato dalla missiva. “Chi mai spedisce una lettera di 18 pagine? – dice al Foglio – Dopo aver saputo che Ahmadinejad impedisce alla gente di ammiccare con gli occhi, che ascolta dentro i pozzi e che comunica con i fantasmi degli imam, una simile farneticante lettera non ci stupisce affatto. Deprimenti saranno le ovvie reazioni dell’occidente liberal, che la considererà come una ‘svolta decisiva’, un concreto tentativo di apertura diplomatica, quando, in realtà, è soltanto una mossa fatta per prevenire una possibile iniziativa dell’Onu, stimolata dalla minaccia americana di un uso della forza e incoraggiata dalla Cina e dalla Russia, che tollerano gli iraniani e permettono loro di continuare a fare due passi in avanti e uno indietro, avvicinandosi sempre di più al precipizio dell’Armageddon”. “Il liberalismo e la democrazia occidentale non sono riusciti a realizzare gli ideali dell’umanità. Oggi, questi due concetti hanno fallito”, scrive il leader iraniano. La lettera è un elenco di “misfatti” americani. Che la missiva di Ahmadinejad fosse arrivata al mittente con tempismo non era sfuggito a nessuno. Lunedì, infatti, i ministri degli Esteri dei cinque membri del Consiglio di sicurezza più la Germania si sono incontrati per cena, a New York, e hanno discusso la necessità di adottare la bozza di risoluzione, proposta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che prevede l’imposizione di sanzioni contro l’Iran, in caso non mettesse fine al suo progetto atomico. “Ebbene, ci troviamo in una situazione di tipo zen – dice Hanson – lasciamo che il tanto vantato multilateralismo faccia il suo corso con la troika europea; che i nobili russi e i cinesi aprano un tavolo di discussione; che l’Onu applichi la sua annunciata diplomazia; che il mitico movimento dissidente iraniano rovesci i mullah; che la democrazia in Iraq destabilizzi l’Iran. Nel frattempo, ce ne restiamo tranquilli aspettando con terrore quell’undicesima ora tra la produzione finale dell’uranio arricchito e l’armamento atomico, quando soltanto noi (gli Stati Uniti, ndr) dovremo agire, ringraziati in privato e messi in ridicolo pubblicamente, con tutte le conseguenti ripercussioni sul costo del petrolio e sul terrorismo”. L’altra sera, a New York, ancora una volta non si è trovata una soluzione comune. Per l’esperto militare, “i russi e i cinesi ci guadagnano a non far nulla. Contano sul fatto che le testate nucleari sarebbero puntate a ovest e non a est. La Cina vuole avere un rapporto privilegiato con l’Iran sul tema del petrolio. La Russia vuole vendere qualsiasi cosa, dalle armi alla tecnologia nucleare. Alla Cina e alla Russia non importa vedere gli Stati Uniti inchiodati e ostacolati da un nuovo problema mediorientale che ne limiti le ambizioni in altre regioni”. Per Hanson, Mosca e Pechino non si dimostreranno utili. C’è chi dice che la soluzione all’impasse sia un’intesa, un “grand bargain” con i mullah. “Ma quale ‘bargain’? – si chiede Hanson – lasciare che la volpe russa sorvegli il pollaio iraniano? Per i mullah, la bomba atomica fa rinascere il prestigio dell’impero achemenide, l’orgoglio islamico come autentico e temuto nemico d’Israele, il rispetto dei paesi arabi produttori di petrolio, un modo per ricattare l’occidente e, se dovesse capitare il peggio, una sorta di ricompensa in paradiso per avere compiuto il ‘santo’ atto di terminare ciò che Hitler aveva iniziato. Nell’anno circa che ci è rimasto, non possiamo far altro che sperare in bene e aspettarci il peggio. L’opzione militare è spaventosa. Ci sono soltanto due scenari peggiori: permettere all’Iran di procurarsi armi atomiche e lasciare a Israele il compito di risolvere il problema”. Tra le opzioni privilegiate dagli analisti, c’è la possibilità di un “regime change”, l’appoggio alla dissidenza, ma Hanson è scettico. “Considerando la natura del medio oriente e lo stato precario delle riserve petrolifere, lo scenario descritto ha il 30 per cento di possibilità di successo, abbastanza per fare un tentativo, viste le magre alternative, non abbastanza per riporre in esso tutte le nostre speranze”.
Di seguito riportiamo invece l'esaltazione della lettera di Ahmadinejad come credibile proposta di pace da parte di Farian Sabahi sulla STAMPA del 9 maggio (quando per altro il contenuto della lettera era ancora sconosciuto).
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta a scrivere al quotidiano torinese chiedendo spiegazioni circa la pubblicazione di un articolo simile, che affronta con argomenti totalmente inconsistenti e con totale noncuranza dei fatti una drammatica questione di politica internazionale.
Ecco il testo:
QUANDO prendo il taxi, a Teheran, è sempre la stessa storia. A fine corsa, chiedo al conducente quanto gli devo e lui mi risponde: «Si figuri, non mi deve nulla!». La buona educazione prevede che il cliente chieda il prezzo tre volte. Solo allora il tassista dice la cifra da pagare, talvolta esorbitante. In persiano questi salamelecchi si chiamano «tarof» e, trasversali a ogni ceto sociale, sono parte della vita quotidiana. Anche a tavola l’ospite accetta il cibo solo dopo avere rifiutato tre volte.
Come dimostra la lettera inviata da Ahmadinejad a Bush, il gioco del presidente iraniano deve essere interpretato in quest’ottica: quando inveisce contro l’America intende l’esatto contrario e cerca un riavvicinamento che vuole però far pagare caro. Dopotutto, recita un proverbio, chi disprezza compra. E gli iraniani imparano fin da bambini a giocare a scacchi nonostante un divieto imposto dall’ayatollah Khomeini all’indomani della Rivoluzione e peraltro mai rispettato.
Queste strategie sono difficili da comprendere sia per gli occidentali sia per gli iraniani della diaspora. Qualche anno fa un amico iraniano, da tempo a Torino, portò a cena un giovane che aveva appena lasciato Teheran. Quando passammo con i piatti di portata il giovane iraniano rifiutò il cibo. Alla fine della serata non aveva mangiato nulla. L’amico che lo accompagnava riuscì a farsi dire che, essendo ospite di iraniani, pensava valesse la regola del tarof: avrebbe rifiutato il cibo tre volte prima di servirsi. Ma, al suo primo no, nessuno aveva insistito.
Analizzando il comportamento del presidente Ahmadinejad, occorre quindi tenere presente che si tratta di un personaggio cresciuto in una cultura diversa, indubbiamente più sofisticata di quanto si possa giudicare in prima battuta. Quando Ahmadinejad scrive a Bush proponendo «nuove soluzioni ai problemi internazionali e all’attuale fragile situazione mondiale», è ben consapevole dei molti interessi di Washington a un riavvicinamento.
Ecco tre esempi. In Iraq, gli iraniani potrebbero aiutare gli sciiti al governo a promuovere la stabilità e combattere la guerriglia di Al Zarqawi. In Afghanistan potrebbero collaborare con la coalizione internazionale grazie alla comunanza culturale, religiosa e linguistica: il persiano è parlato da parte della popolazione afghana e lo sciismo è la fede della minoranza Hazara. In Siria potrebbero fare pressione sul regime di Bashar al Assad affinché interrompa il sostegno al terrorismo.
Messo fine all’isolamento dell’Iran, la comunità internazionale sarebbe in grado di aiutare questo Paese a sviluppare un programma nucleare a scopi civili, in tutta sicurezza. Si riuscirebbe così a sottrarre Teheran alle grinfie dei russi di cui c’è oggettivamente poco da fidarsi visto che, vent’anni dopo Cernobil, costruiscono centrali atomiche in Iran, un Paese ad alto rischio sismico, senza dare garanzie al resto del mondo.
La lettera di Ahmadinejad è importante anche in politica interna. È la prima volta, dal 1979, che un leader iraniano scrive al presidente degli Stati Uniti. Ahmadinejad usurpa così, di fronte all’opinione pubblica iraniana, la posizione del pragmatico Rafsanjani, che nel giugno scorso aveva invitato la popolazione a votarlo con la promessa di organizzare un referendum per riallacciare i rapporti con Washington. Ma Ahmadinejad spodesta pure l’ex presidente riformatore Khatami che aveva fatto del dialogo tra civiltà il suo cavallo di battaglia. Scrivendo a Bush, Ahmadinejad si appropria dell’agenda politica dei suoi oppositori.
Oltre a fare il proprio gioco, il presidente iraniano fa anche quello dell’Occidente. Tendendo la mano a Washington, l’Iran fa scacco ad Al Qaeda, un movimento wahabita che disprezza l’Islam sciita. Dopotutto, gli iraniani non sono arabi e la loro cultura è indoeuropea, più vicina all’Europa di quanto si possa immaginare. Se ben accolta dall’amministrazione Bush, la mossa di Ahmadinejad potrebbe spiazzare Al Qaeda: un’alleanza tra la Repubblica islamica e gli Stati Uniti offre infatti ai giovani musulmani del pianeta un’alternativa all’estremismo di cui Al Qaeda si fa portavoce.
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