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La Stampa Rassegna Stampa
10.05.2006 Islam e Occidente secondo Bernard Lewis
nel ritrattto di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 10 maggio 2006
Pagina: 27
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Bernard Lewis: ma l'America é un blauardo contro l'Islam»

Fiamma Nirenstein nelle pagine culturali della STAMPA di mercoledì 10 maggio 2006 racconta la conferenza dell'islamologo Bernard Lewis durante il convegno a lui dedicato a Philadelphia  e la figura di questo grande intellettuale.
Ecco il testo:

Fu a Bologna, a una lettura del Mulino nel 1991, che incontrai per la prima volta il professor Bernard Lewis, che compie in questi giorni 90 anni e che il 1° maggio abbiamo festeggiato, con tanti amici, a Philadelphia. Mi lasciò, allora, stupefatta e conquistata lo scenario mediorientale che sciorinò con ordine impeccabile trascendendone la polverosa complessità. Il tema era «La crisi del Medio Oriente in prospettiva storica»: tutt’a un tratto vidi nella storia del mondo islamico la nostra immagine rovesciata, i guai e i trionfi dell’Occidente come in uno specchio, la storia della vittoria della democrazia riflessa in quella della sconfitta di un mondo abituato per secoli a primeggiare; fumava nel suo british english l’esplosiva carica di futuro che avrebbe da lì a qualche anno travolto il mondo. L’Islam tornava, come aveva già scritto in un articolo preveggente nel 1976. L’Islam si infuriava, come scrisse nel 1990 in The roots of muslim rage (tradotto da Mondandori, La crisi dell'Islam. Le radici dell'odio verso l'Occidente), quando ancora quel tema era impensabile.
È passato tanto tempo dalla lettura di Bologna: allora Bernard Lewis era un guru accademico, ma oggi è anche l’uomo che con i suoi studi, con i suoi pareri portati a Washington da Princeton (nato a Notting Hill, si è trasferito in America nel 1974) è diventato un caposcuola del pensiero politico americano, la guida intellettuale in un frangente storico drammatico come quello dell’11 settembre, l’esperto per eccellenza consultato senza differenze politiche da chi vuole capire qualcosa della situazione. L’hanno spesso chiamato nei momenti difficili Bush, Cheney, Condoleezza Rice, ma anche una serie di leader musulmani giordani, egiziani, turchi, degli Emirati. Perché il pensiero di Bernard è spietato con l’Islam quanto profondamente intrinseco a quella cultura, all’intreccio fra la sua storia e la nostra.
La conferenza di celebrazione, sul tema «Islam e Occidente», è stata come una grande rappresentazione del senso del lavoro di Bernard Lewis: ancora una volta loro e noi, un destino intrecciato che dall’VIII secolo muove la storia del mondo e che, per il professore, ha al centro il tema della democrazia come chiave di uscita dal conflitto. Al grande simposio organizzato dal World Affairs Council di Philadelphia, sempre senza un appunto scritto, sempre nascondendo dietro l’angolo della frase oggettiva e secca un sorriso, oppure (o insieme) una conclusione dirimente, una sentenza tragica, Bernard Lewis ha fornito al pubblico un discorso dinamico e pessimista, in cui l’Europa riveste il ruolo di un fantasma destinato a svanire, gli Usa rappresentano con pochi altri Paesi il baluardo nei confronti dei protagonisti della rivincita islamica, l’Iran è un pericolo mondiale da prendersi molto, molto sul serio, e anche Bin Laden.
Lewis ha dipinto l’Islam come un mondo di fronte al quale siamo disarmati e indecisi, che se ci vede deboli ci seppellirà. Erano là a misurarsi con lui personaggi di fama mondiale. C’erano il vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney, Henry Kissinger, Francis Fukuyama, il grande storico libanese-americano Fouad Ajami e tanti altri fra cui molti studiosi e politici arabi. L’evento è stato costruito dalla presidente della Fondazione Buntzie Churchill che è anche la compagna di vita di Bernard Lewis: «Nella mia situazione di presidente e insieme di lady del professore, è stato molto più facile costruire una conferenza che fare una torta», ride.
Perché Cheney ha sentito il dovere di venire a parlare di Bernard Lewis al suo compleanno? Perché Henry Kissinger ha scelto questo palcoscenico per dichiarare, lui, il re dei realisti: «Non accetto la divisione fra realisti e idealisti, si può essere ambedue le cose»? Aggiungendo: «Qualcosa deve essere fatto per fermare l’Iran».
La risposta sta nel fatto che essi vedono in lui una pietra angolare nelle acque tempestose di questi anni, uno studioso che non si sottrae al dovere interpretativo: Lewis ha fornito la chiave per capire quello che ci sta capitando, e ha preso le sue responsabilità nel dire che la democratizzazione è la chiave per fermare l’islamismo terrorista. Prima di tutto ha esaminato il conflitto attuale senza cadere nell’idea che la furia islamista sia legata alle colpe dell’Occidente: lui vede la rabbia islamica come risultato della sconfitta dell’Islam che venne dopo un millennio di predominio militare, culturale e economico. Vede un mondo frustrato e furioso, e deciso a riconquistare il predominio. C’è rispetto in questa analisi, e c’è rispetto nel pensare che anche i musulmani, come tutti gli uomini di buona volontà, godranno della democrazia.
Lewis seguendo il suo filo ha visto giusto molto prima di tutti: l’espressione «scontro di civiltà» è sua, come gli riconosce doverosamente Huntington. È stato Lewis col suo stupefacente saggio del 1990 a identificare le forze in campo. È stato lui a scoprire che un saudita in esilio di nome Bin Laden, nel 1998, già dichiarava senz’altro guerra ai crociati e agli ebrei e prometteva di riconquistare innanzitutto la Penisola arabica. E molto prima, negli Anni 70, sempre lui, che sa il persiano (parla tutte le lingue mediorientali, più una mezza dozzina di lingue occidentali), leggendo un libro dell’ajatollah Khomeini in esilio a Parigi, ne identificava le vere intenzioni mentre tutto il mondo parlava di una rivoluzione che appariva erroneamente come una lotta di poveri contro lo sfruttamento dello shah Reza Pahlavi sostenuto dagli americani.
Dopo l’11 settembre Bernard Lewis è stato spesso prelevato per consultazioni da elicotteri e macchine scure dirette a Washington, e là ha portato sempre il medesimo messaggio, che è anche la sua ossessione e la sua speranza: democrazia. Democrazia che se non si prende a gocce, come una medicina, può uccidere il paziente, ha più volte ripetuto; in realtà, il professore pensa che elezioni libere dovrebbero esser il culmine e non l’inizio di un indispensabile processo di democratizzazione, ma è convinto che il mondo islamico, abituato a una storia di consultazioni e di rispetto, potrebbe accettarle e guarire così dal verme della dittatura e del terrorismo. È la sua strada, la sua speranza. Ma se gli si chiede che cosa succederà, risponde: «Non è nelle mie competenze rispondere a questa domanda», come ha fatto a Philadelphia. Piega la testa da una parte: è uno storico, un professionista, non un guru. Eppure, sul destino dell’Europa ritiene nelle sue competenze rispondere che, se non ci sarà un risveglio immediato, il Vecchio Continente è destinato alla sconfitta di fronte all’Islam. Ovvero: è sicuro.

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