Dal FOGLIO di martedì 9 maggio 2006, un seminario in onore di Bernard Lewis in un'intervista a Fiamma Nirenstein:
Roma. I novant’anni di Bernard Lewis, il più importante studioso mondiale di medio oriente, professore emerito a Princeton “e grande padre politico dell’idea che la libertà e la democrazia possano essere estese al medio oriente”, sono stati l’occasione per fare il punto sui rapporti tra islam e occidente, sui temi della lotta al terrorismo, della sicurezza mondiale e del ruolo dell’Europa. Lo racconta al Foglio la giornalista e scrittice Fiamma Nirenstein, tornata a Gerusalemme dopo aver partecipato, al World Affairs Council di Philadelphia, diretto dalla compagna di vita di Lewis, Buntzie Ellis Churchill, al seminario in onore dell’illustre festeggiato, lo scorso primo maggio. Alla riunione sono intervenuti politici, come il vicepresidente Dick Cheney e Henry Kissinger, studiosi come Francis Fukuyama, Richard Perle, Judy Woodruff, Akbar Ahmed, Fouad Ajami. C’erano anche la scrittrice e deputata olandese d’origine somala Ayaan Hirsi Ali e il tedesco Josef Joffe, editorialista del Die Zeit. Fiamma Nirenstein racconta che “il vicepresidente Cheney, smentendo la sua fama di falco, ha parlato a lungo di quanto Lewis ami il mondo islamico. Lo dimostra la sua passione per le lingue mediorientali, che padroneggia alla perfezione, e il suo passato, quando era ancora un suddito inglese che lavorava nei servizi di Sua Maestà, come un nuovo Lawrence d’Arabia (lacittadinanza americana l’avrebbe presa a cinquantotto anni, al suo arrivo a Princeton). Grazie a questa conoscenza di prima mano, Lewis è riuscito a guardare al mondo islamico con un atteggiamento di verità, disincantato e amoroso nello stesso tempo, senza falso pietismo e senza alcun senso di superiorità”. Tra gli intervenuti al seminario di Philadelphia, racconta Fiamma Nirenstein, “un’impressione forte l’ha fatta Henry Kissinger. Sappiamo che è considerato il caposcuola del realismo politico americano, cioè della linea di pensiero e di condotta che comunemente si considera contrapposta all’idealismo di chi, per esempio, pensa di poter cambiare il mondo con l’esportazione della democrazia”. Per questo è stata una vera sorpresa, “quando Kissinger ha affermato che è stufo di essere considerato un realista ‘rinunciatario’. Chi è realista è anche idealista, ha detto, e ha aggiunto con molta decisione che bisogna fare subito qualcosa contro la nuclearizzazione dell’Iran”. Del ruolo dell’Europa hanno parlato altri relatori, “come lo storico Fukuyama a Fouad Ajami, docente alla John Hopkins University e autore di un libro importante come ‘The Dream Palace of the Arabs’. Come sempre, però, l’analisi più illuminante è arrivata dal festeggiato, Bernard Lewis, che a novant’anni suonati continua a parlare a braccio, senza un appunto, brillante e battutista come sempre. Il succo del suo pensiero, però, è piuttosto amaro. In lui, come un po’ in tutti gli intervenuti al convegno di Philadelphia, impera il pessimismo sulla capacità da parte dell’Europa di attrezzarsi contro i pericoli per la sicurezza dell’occidente, soprattutto contro quello che oggi si profila da parte iraniana. Quell’incapacità, ha detto Lewis, rischia di compromettere l’intera guerra contro il terrorismo. L’Europa, insomma, potrebbe già essere in qualche modo stata sconfitta dalle proprie paure e dai propri sensi di colpa”. In America, la consapevolezza dello stato attuale dello “scontro di civiltà” (una definizione di cui Samuel Huntington, autore del saggio che porta quel titolo, non manca di riconoscere la paternità a Lewis) raggiunge livelli impensabili da questa parte dell’Atlantico. Spiega Fiamma Nirenstein che “anche il senatore democratico come Joseph Biden, che con altri esponenti del suo partito ha partecipato al convegno in onore di Lewis, dopo aver proposto per l’Iraq la soluzione della federazione di stati, ha fatto una diagnosi molto preoccupata della situazione mondiale, dimostrando di avere una visione netta del problema islamico. E anche lui manifesta la solita, immensa preoccupazione per l’Europa”. La giornalista racconta di quando, la sera del 28 aprile, le hanno chiesto di pronunciare il brindisi per Bernard Lewis, durante la cena alla Union League, luogo storico di Philadelphia, sotto i ritratti dei padri fondatori americani: “Ho pensato: ecco il posto giusto per festeggiare uno come lui, degno di incarnare la parola democrazia, capace di non tirarsi indietro quando si tratta di capire come difenderla. Il leitmotiv dei suoi studi è questo. A fare di lui un personaggio autorevole, consigliere di capi di stato occidentali e interlocutore di leader arabi, è la sua profonda convinzione che il mondo islamico possa adattarsi alle regole democratiche. Lewis considera chi sostiene il contrario come il peggior nemico del medio oriente. Ecco perché, ai critici dell’iniezione di democrazia attuata in Afghanistan e in Iraq, oppone la sua idea che quel contatto, per quanto duro, bellicoso, è profondamente positivo”. Nel passato rapporto con la cultura nazi-fascista e poi comunista, considerate idee utili in vista della riconquista di ruolo e di potere, “Lewis vede la causa per cui il mondo islamico ha oscurato alcune fondamenta importanti della propria storia. Come l’abitudine dei sultani a consultarsi con le gilde sociali e culturali, per esempio. Radici che oggi dovrebbero essere valorizzate per avviare quel mondo verso la democrazia”. Il novantenne Bernard Lewis, conclude la Nirenstein, “ha spiegato come nessun altro l’islam che dopo aver dominato il mondo per quasi mille anni si è trovato sconfitto. Solo lui poteva scrivere nel 1990 il famoso articolo sul ‘ritorno dell’islam’. Solo lui, prima della rivoluzione iraniana, poteva capire che il regime khomeinista in arrivo avrebbe creato problemi immensi. Solo lui, nel 1998, poteva scoprire nelle pagine interne di un giornaletto arabo la dichiarazione di guerra di bin Laden a ‘ebrei e crociati’. Solo lui sa guardare all’islam come allo specchio rovesciato di noi stessi, per leggerci i nostri limiti e le nostre difficoltà. Ma riuscendo a evitare il vizio di trasformare tutto questo in senso di colpa”.
La cronaca di Rolla Scolari sugli scontri intrapalestinesi:
C’è stato un incendio, ieri, al Parlamento palestinese, a Ramallah. In un primo momento si è parlato di un cortocircuito elettrico. Poi Aziz Dawik, presidente dell’Assemblea e membro di Hamas, ha suggerito che non si sia trattato di un incidente, bensì di un atto premeditato. A queste parole è seguita l’ira e le smentite degli uomini di Fatah, chiamati indirettamente in causa dalla dichiarazione. La tensione, tra il Movimento per la resistenza islamico e il partito del rais, Abu Mazen, è alta, in queste ore. Al mattino, a Gaza, ci sono stati violenti scontri tra uomini armati dei due gruppi. Un membro di Hamas e due di Fatah sono morti. Al centro della battaglia per il potere, c’è il controllo delle milizie e delle armi. Hamas sembra essere sempre più agitato a causa del blocco degli aiuti internazionali e della conseguente impossibilità del governo di pagare i salari dei funzionari pubblici: rischia di perdere il controllo della situazione. Sabato, migliaia di palestinesi arrabbiati, hanno scioperato contro il mancato pagamento degli stipendi, sono scesi nelle piazze della Striscia di Gaza e della Cisgiordania per manifestare, striscioni, cartelli e bandiere alla mano: “Questo è il terzo mese” senza salario, dicevano le scritte. I segnali delle sempre più complicate relazioni tra Hamas e Fatah non si fermano agli scontri di ieri mattina. Secondo il Sunday Times, Hamas (le Brigate Izzendine al Qassam, il suo braccio armato) avrebbe avuto pronto un piano per uccidere Abu Mazen, proprio nel suo ufficio di Gaza. E insieme a lui, nel mirino c’era anche Mohammed Dahlan, ex capo della Sicurezza della Striscia e ancora oggi a guida di un importante gruppo di uomini armati. A sventare il complotto sarebbero stati i servizi segreti israeliani, che avrebbero avvertito il presidente. I vertici del Movimento per la resistenza islamica vedrebbero in Abu Mazen un impedimento al pieno controllo della situazione politica palestinese. Inoltre, mentre Hamas continua a essere tagliato fuori dai canali diplomatici internazionali, Abu Mazen è l’interlocutore sia di Europa e Stati Uniti sia d’Israele e vedrà il premier isreaeliano, Ehud Olmert, subito dopo la visita di quest’ultimo a Washington, il 23 maggio. C’è chi è scettico sulla storia del piano. “Hamas non lo farebbe – ha detto al Foglio Roni Shaked, grande conoscitore del gruppo, cui ha dedicato un libro, e giornalista di Yedioth Ahronoth – Sarebbe la fine di Hamas e ora il movimento non è pronto a fare la guerra ad Abu Mazen. Hamas non è così pazzo. Vuole conquistare l’Autorità nazionale e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ma non così”. Ammette, però, che i problemi tra Fatah e Hamas ci sono, e continueranno. Che i vertici del partito del presidente siano preoccupati lo prova anche l’annuncio della costituzione di una nuova milizia, legata a Fatah, dedita alla protezione dei leader. Eliezer (Geizi) Tsafrir, ex agente del Mossad ed ex consulente per gli Affari arabi di Ariel Sharon, dice che la notizia del piano gli sembra logica. “C’è un grande conflitto in atto tra Abu Mazen e Hamas. Il rais dice ogni tanto di avere l’autorità per sciogliere il governo e proclamare nuove elezioni. Questo significherebbe la fine dell’era di Hamas. Il gruppo ha vinto alle urne perché i palestinesi erano stufi della corruzione di Fatah ma, oggi, Hamas perderebbe: hanno capito che il movimento non dà loro il pane”. E’ vero, non sembrerebbe logico, da parte di Hamas, uccidere Abu Mazen, al contrario, sarebbe un suicidio politico. Ma, si chiede Tsafrir, “quando la Siria di Bashar el Assad ha pianificato l’attentato a Hariri, dov’era la logica?”. Il rais Abu Mazen è comunque molto attivo in questi giorni, dopo un viaggio mirato a raccogliere aiuti finanziari, oggi sembra impegnato a ristrutturare il suo acciaccato partito. Al Quds al Arabi, quotidiano palestinese edito a Londra, ha dato notizia, venerdì, della volontà del presidente di fondare “un Kadima palestinese”, formato da membri delle giovani leve di Fatah: Dahlan, Jibril Rajoub, Rouhi Fatouh; ma nel giro di poche ore la situazione sarebbe già cambiata. Fonti informate hanno detto al Foglio che Abu Mazen non pensa più a un nuovo partito, ma alla ristrutturazione interna del vecchio gruppo, che sarebbe già partita nel weekend.
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