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Il Manifesto Rassegna Stampa
09.05.2006 Premio come miglior giornale umoristico
al quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 09 maggio 2006
Pagina: 9
Autore: Angelo Mastrandea - Michele Giorgio
Titolo: «Giù le mani dall'Iran. L'appello del social forumi -Contrabbandieri e miseria a Gaza»

A rischio  di passare per la caricatura di se stesso Il MANIFESTO  di martedì 9 maggio 2006 riesce a titolare "Giù le mani dall'Iran" Purtroppo, prosegue con un banale "L'appello del social forum". Avremmo preferito "Khomeini é vivo e lotta insieme a noi".
Ecco il testo:

Una settimana di iniziative in tutta Europa, dal 23 al 30 settembre, per chiedere il ritiro delle truppe dall'Iraq e dall'Afghanistan e di evitare una nuova guerra in Iran. Con il prologo, sul versante italiano, di una mobilitazione no war il prossimo 2 giugno, festa della Repubblica, per incalzare il futuro governo Prodi e chiedere, nei primi cento giorni del suo mandato, che venga sancito il ritorno delle truppe dalle zone di conflitto. Tutto in vista del voto del Parlamento sul rifinanziamento delle missioni militari all'estero, previsto entro il 30 giugno. Il Forum sociale europeo che si è chiuso domenica ad Atene con una affollatissima assemblea finale e numerose polemiche sugli scontri e la cattiva organizzazione del corteo del giorno prima prende una piega decisamente no war. Non poteva che essere altrimenti: i quattro giorni di incontri hanno dimostrato che quella della guerra è una priorità per i movimenti ed è l'unico tema sul quale si raggiunge l'unanimità. Per questo non si aspetterà l'usuale appuntamento del 20 marzo, anniversario dell'attacco all'Iraq, per indire una mobilitazione internazionale, ma ci si aggancerà a un appello dei pacifisti americani a scendere in piazza a settembre. Per il resto, gli altri temi su cui il forum ha raggiunto una sintesi sono quello dei migranti e dell'opposizione alle privatizzazione e in difesa dei beni pubblici, anche se in quest'ultimo caso ci si rivedrà a ottobre per discutere di una manifestazione comune. Nessuna decisione invece su data e luogo del prossimo forum: in pole position rimane Bruxelles, con appuntamento tra l'autunno 2007 e la primavera 2008. Ma a monopolizzare l'assemblea fiume della serata di sabato e in parte quella conclusiva di domenica sono state le polemiche sugli incidenti al corteo. Tra i più duri a scagliarsi contro gli organizzatori greci sono stati gli italiani, che dalla testa del corteo in cui sfilavano si sono trovati accerchiati dalle «tute nere». Il più duro di tutti è Piero Bernocchi dei Cobas: «Si tratta di 500 parassiti che hanno organizzato un controvertice insulso e hanno fatto rischiare un massacro, se solo la polizia fosse intervenuta come a Genova. Hanno perfino cercato di incastrarci lasciando delle nostre bandiere sui luoghi degli scontri. Bisogna mettere fuori dal corteo chi tenta di distruggerlo». Il bilancio finale parla di 65 arresti, quattro banche bruciate, negozi e un McDonald's sfondati, una molotov lanciata in un'auto della polizia con l'agente all'interno rimasto ferito, un bus della polizia attaccato e dato alle fiamme, sassaiole e scontri con la polizia lungo tutto il percorso e in particolare davanti all'ambasciata Usa e nei pressi di quella inglese. E di un problema politico serio per l'intero movimento: la gestione dei rapporti con aree escluse o addirittura apertamente conflittuali con il social forum. Molti concordano infatti sull'idea che l'azione era rivolta anche contro il raduno dei movimenti, come dimostrano il proliferare degli «spazi autonomi» e le divisioni tra «orizzontali» e «verticali». Ciononostante, le cifre parlano di almeno 60 mila persone in corteo, circa 30 mila iscritti arrivati da tutta Europa e una forza di attrazione del forum ancora notevole. Di tutto ciò non pare essersi accorta la stampa italiana. E nemmeno una parte della sinistra.

A pagina 11 Michele Giorgio riesce incredibilmente a denunciare il fatto che i soldati israeliani non fermano il contrabbando di armi a Gaza. A parte il fatto che la responsabilità sarebbe ovviamente delle forze di sicurezza dell'Anp, vale la pena di ricordare che quando in passato Israele ha fatto alcuni tentativi per scovare  e distruggere i tunnel attraverso i quali ha luogo il traffico,  Giorgio ha ovviamente denunciato la cosa come un aggressione. Non c'é dubbio che altrettanto farebbe in futuro, se l'occasione dovesse ripresentarsi. Anzi: é probabile che la sua indignazione sarebbe accresciuta dalla "violazione" della "sovranità" palestinese.
Ecco il testo dell'articolo, con il passaggio sottolineato:


Nella Gaza stremata dalla crisi finanziaria e dove tutto è diventato un bene di lusso, a causa delle chiusure prolungate del valico commerciale di Karni da parte di Israele, gli unici che fanno affari d'oro sono i contrabbandieri. «Di armi però, non di sigarette. Questo è un buon momento per chi vuole mettere da parte qualche decina di migliaia di dollari facendo entrare a Gaza kalashinkov, pistole e proiettili», precisa Abu Amer (non certo il suo vero nome) mentre ci accompagna a vedere la bocca di un tunnel sotterraneo tra Rafah e l'Egitto. «Questo è stato chiuso un paio di mesi fa dalla polizia (palestinese)», ci spiega mentre avanziamo tra i ruderi di un'abitazione alla periferia di Rafah a poche centinaia di metri dal confine, «Gli altri tunnel, quelli attivi, sono vicini al transito (israeliano) di Kerem Shalom ma nessun estraneo può avvicinarsi». Abu Amer dice di essere soltanto uno «bene informato» eppure a Rafah molti lo conoscono come un contrabbandiere esperto. Per capire i vantaggi, per chi lo pratica, del traffico di armi, è sufficiente considerare che sul mercato nero di Gaza un kalanshinkov costa tra i 2000 e i 3000 dollari, un lanciagranate o un lanciarazzi oltre i 3000 dollari, un proiettile tre dollari, una pistola alcune centinaia di dollari. «Dipende dal tipo di armi - spiega Abu Amer - un kalanshinkov uscito dagli arsenali egiziani costa molto meno di quelli prodotti nei paesi della ex Urss. Qualche settimana fa sono entrate a Gaza mitragliette di fabbricazione tedesca mai viste prima e sono andate a ruba». E i prezzi delle armi sono in aumento da quando la polizia di frontiera egiziana ha intensificato i controlli, soprattutto dal giorno dell'attentato a Dahab, nel Sinai. Le forze di sicurezza di Mubarak, alla ricerca di beduini coinvolti nell'attacco suicida nella località turistica, hanno stretto nella morsa Jabal Halal, una località impervia dove trovano rifugio i ricercati e vengono nascoste le armi prevenienti dallo Yemen, l'Arabia saudita ma anche dal Sudan e altri paesi africani. Armi leggere, al massimo qualche lanciagranate, ma non missili. «Grazie ai loro informatori gli israeliani riescono a sapere sempre che tipo di armi passano nei tunnel - afferma Qishta - e sino a quando sono mitra e pistole fanno finta di nulla ma quando si tratta di qualcosa di più, come razzi antiaerei, non esitano ad intervenire usando il massimo della forza. I contrabbandieri lo sanno e rispettano queste regole non scritte». Sono tre i clan familiari di Rafah storicamente impegnati nel contrabbando di armi (ma anche di hashish): Qishta, Abu Shaar e Sdudi. «Ci vogliono almeno 20mila dollari e dai tre ai sei mesi per scavare un tunnel da Rafah fino al territorio egiziano - racconta Abu Amer - e ai lavori partecipano 10-15 operai. Si arriva in profondità fino a 8-10 metri perché il terreno è composto lungo il confine da sabbia per un paio di metri, da una crosta dura di argilla di 6-7 metri e poi si incontra di nuovo la sabbia. Il tunnel quindi ha una sorta di soffitto di argilla e di pavimento sabbioso. Deciso un punto di partenza sicuro gli operai palestinesi procedono, con l'aiuto della bussola, verso sud-est mentre quelli dal lato egiziano in direzione nord-ovest. Ogni 60-70 metri viene fatto uscire in superfice un tubo per controllare la direzione e per far entrare aria nella galleria, larga meno di un metro». Talvolta qualcuno ci rimette la vita, quasi sempre a causa di crolli. Una volta finito il tunnel viene usato direttamente dal suo proprietario o affittato in cambio di una sostanziosa commissione sul passaggio di ogni singolo «articolo». Il giro di affari per ogni carico è tra i 100mila e i 200mila dollari. «Dai contrabbandieri di Rafah comprano tutti: Hamas, Jihad, Al-Fatah, i servizi di sicurezza e ora anche alcune famiglie. Israele sa tutto ma fa finta di non vedere», dice Abu Amer esplodendo un attimo dopo in una lunga risata. Le donne velate e chiuse nell'abaya nero che entrano Qasaria, il mercato dell'oro di Gaza city, a due passi dai campanili delle chiese latina e ortodossa, nemmeno immaginano quante migliaia di dollari riescono ad infilarsi in tasca i contrabbandieri di Rafah. Loro nei negozietti che espongono anelli, orecchini, bracciali e qualche pietra preziosa ci vanno per vendere gli oggetti d'oro del maher (i regali ricevuti in dono dal marito prima delle nozze) e procurarsi denaro contante. Da due mesi l'Autorità nazionale palestinese, boicottata da Stati Uniti ed Europa da quando Hamas è andato al potere, non è in grado di versare i salari ai suoi 160mila dipendenti in Cisgiordania e a Gaza. La crisi è diffusa. I consumi sono scesi drasticamente e in rovina stanno per finire centinaia di commercianti che ormai vendono le loro merci a prezzi minimi. «Mio marito non vede un centesimo da due mesi e noi non abbiamo risparmi. Così l'unica possibilità è vendere i nostri oggetti di valore», racconta Umm Tareq mentre mostra anelli e orecchini d'oro al proprietario di una oreficeria. Negli ultimi quattro mesi sarebbero uscite da Gaza oltre 2 tonnellate di oro vendute da migliaia di famiglie ridotte alla fame. Si dispera da parte usa Nabil Abu Shaban che vende elettrodomestici: «I miei clienti sono soprattutto giovani coppie che arredano la loro abitazione. Ma ora si sposano in pochi e chi lo fa spende il meno possibile». I soldi invece non mancano nelle tasche di quei comandanti di Hamas ed Al-Fatah sempre alla ricerca di fucili e pistole per farsi la guerra tra di loro.

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