unilateralismi paralleli, che in una certa misura si giustificano e si sorreggono a vicenda
Così Janiki Cingoli, in un editoriale pubblicato da EUROPA del 5 maggio 2006 descrive il rifiuto di Hamas di riconoscere Israele, di rinunciare al terrorismo, e di condannarlo e di perseguirlo. E anche il rifiuto di Israele a trattare con chi vuole distruggerlo, protegge chi fa strage dei suoi cittadini e si organizza per fare altrettanto.
Un parallelismo davvero moto ardito.
Sul quale si fonda per di più una pericolosa proposta: per avviare il dialogo con Hamas, sostiene Cingoli, non sarebbe affatto necessario che quest'ultimo riconoscesse Israele. Basterebbe che dichiarasse di essere disposto a farlo, qualora Israele, come vuole il piano della Lega araba presentato a Beirut nel 2002, si ritirasse dai territori conquistati nel 67 (in una guerra difensiva) , Gerusalemme Est compresa , e acconsentisse al ritorno dei profughi palestinesi e dei loro discendenti (cessando così di essere uno Stato ebraico)
Poiché Israele non potrebbe mai acconsentire a simili condizioni, accogliere la proposta di Cingoli porterebbe di fatto a riconoscere Hamas come interlocutore della comunità internazionale senza alcuna reale contropartita.
Tale politica viene indicata dal quotidiano della Margherita come "agenda internazionale del nuovo governo"
Ecco il testo:
Alla vigilia della formazione del governo Prodi, può essere utile riconsiderare le linee guida della politica estera italiana ed europea in Medio Oriente.
La comunità internazionale continua a auspicare il rilancio della road map, e a chiedere a Hamas il riconoscimento di Israele, quello degli accordi esistenti, e la rinuncia alla violenza. Il rifiuto di Hamas ha causato il blocco dei contatti ufficiali e degli aiuti economici rivolti a quel governo.
Gli Accordi di Washington del 1993 sono certamente ancora validi, e costituiscono l’impalcatura giuridica su cui si basa la stessa Autorità nazionale palestinese. Partecipando alle elezioni legislative, malgrado gli attacchi di Al Qaeda, Hamas di fatto li ha riconosciuti, mentre aveva ri- fiutato di partecipare alle precedenti elezioni presidenziali.
Tuttavia, quegli accordi prevedevano il termine dei negoziati sul Final Status entro cinque anni.
Quel tempo è oramai scaduto. La stessa road map, concepita come un percorso di pace a tappe, si è tramutata in un vicolo cieco. Essa è oramai un fantasma evanescente, che viene tenuto in vita perché costituisce “the only game on the table”. Va detto peraltro che anche l’adesione di Israele alla road map è stata solo parziale, considerate le 14 sostanziali riserve messe a verbale da Sharon.
È necessario ricominciare dalla fine, dal Final Status, anche trovando canali informali di contatto, perché è impensabile che si possa rilanciare la trattativa, arrivando a superare le logiche unilaterali e il rifiuto reciproco, ignorando il possibile punto di arrivo del negoziato.
L’elemento prevalente oggi, in questa nuova fase, è l’unilateralismo. Quello israeliano, che pur rinunciando al sogno del Grande Israele sceglie di effettuare nuove ritirate unilaterali in Cisgiordania, abbandonando gli insediamenti localizzati al centro delle aree palestinesi, e non escludendo di arrivare a definire con lo stesso metodo i confini di Israele, entro il 2010.
Quello di Hamas, che tiene un basso pro- filo e mantiene la tregua, e cerca di stabilizzare il suo governo, risanando i sistemi di governo e collegandosi alle aspirazioni più sentite della popolazione. Ma continua a rifiutare di condannare il terrorismo, di riconoscere lo stato ebraico e di negoziare con esso.
Si tratta di unilateralismi paralleli, che in una certa misura si giustificano e si sorreggono a vicenda. Per una certa fase, questa situazione può anche reggere, ma si deve essere consapevoli che per questa via non si arriverà ad una pace tra israeliani, palestinesi e arabi, e la persistenza di questo focolaio di guerra fungerà da esca alle tensioni esplosive che stanno dilagando nella regione, costituendo un potente elemento di destabilizzazione.
Se non è possibile, oggi, ritornare ad un pieno negoziato bilaterale, può almeno essere individuato un percorso fatto di passi unilaterali, paralleli e di fatto concordati, in modo da rompere l’attuale muro di incomunicabilità tra le parti? È questo un terreno su cui può utilmente esercitarsi la diplomazia, quella ufficiale e quella informale.
Se il governo Hamas non vuole riconoscere preliminarmente Israele, si può chiedergli di accettare il Piano arabo, votato all’unanimità a Beirut nel 2002, che prevedeva il riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi, se Israele si fosse ritirato dai territori occupati nel 67, avesse accettato uno stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale, e dato una soluzione equa e concordata alla questione dei rifugiati.
Una formulazione insufficiente all’avvio del negoziato con Israele, che non accetta di ritirarsi preliminarmente e di tornare ai con- fini del ’67, ma che rimuoverebbe il rifiuto ideologico e di principio di Hamas. Su questo, si sta esercitando una forte pressione diplomatica degli Stati arabi moderati nei confronti del governo palestinese, che dà risposte ambigue e diverse.
Un secondo punto è la rinuncia alla violenza. Ma su questo vi è una distinzione da fare: il diritto alla lotta armata contro l’occupante è riconosciuto internazionalmente, come ha ammesso la stessa Tipzi Livni, ministro degli esteri israeliano.
Quello a cui Hamas deve rinunciare in linea di principio è il terrorismo contro i civili, impegnandosi a contrastare chi vi ricorre.
Quanto alla lotta armata, la cosa importante è che venga prorogata a lungo termine la tregua, la “Hudna” già dichiarata e sostanzialmente rispettata da Hamas.
Su queste due questioni dovrebbero quindi concentrarsi gli sforzi della diplomazia europea e anche di Israele, collegando alla loro accettazione una possibile ripresa anche parziale dei contatti con i ministeri civili palestinesi e degli stessi aiuti.
Il grosso nodo è infatti la questione degli aiuti economici ai palestinesi, essenziali per alleviare le condizioni di vita della popolazione ed anche per far funzionale la macchina amministrativa e i servizi civili. Se il rubinetto viene chiuso totalmente, il crollo è inevitabile, e le conseguenze ricadranno sulla potenza occupante, che in base al diritto internazionale dovrà assumersi la responsabilità delle condizioni della popolazione civile.
Ma ancora più gravi potrebbero essere le conseguenze politiche, dato che Hamas potrebbe essere indotta ad abbandonare la sua scelta parlamentare e a rientrare nella clandestinità, e comunque a stringere ancora di più i legami con l’Iran sciita, da cui pure è ideologicamente lontana, dati i suoi storici legami con i Fratelli mussulmani egiziani. Nuovi varchi potrebbero così aprirsi ai tentativi di penetrazione di Al Qaeda.
Sulla parte israeliana, per converso, Olmert, potrebbe decidere, anch’egli unilateralmente, di bloccare gli omicidi mirati (se la tregua regge), di liberare un consistente numero di prigionieri palestinesi (anche appartenenti ad Hamas), e di prendere misure specifiche per alleviare la vita quotidiana della popolazione palestinese sotto l’occupazione. Sarebbe importante, in particolare, che trovasse il modo, insieme a Bush, di liberare Marwan Barghouti, il giovane leader della seconda intifada, il solo che appare oggi in grado di rivitalizzare Al Fatah.
Lo stesso piano di ritiri dalla Cisgiordania, in quest’ottica, assumerebbe un diverso signi- ficato.
Se questi segnali, presi autonomamente dalle parti, venissero scambiati, avrebbe senso un rilancio parallelo del negoziato bilaterale di Israele con il presidente Abu Mazen, che invece difficilmente Olmert potrebbe accettare in presenza di un Governo Hamas arroccato sulle sue pregiudiziali di rifiuto ideologico. Con Abu Mazen si tratterebbe ufficialmente, con Hamas ci si scambierebbero dei segnali di volontà negoziale, e si troverebbero dei canali informali di trattativa sul Final Status.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione di Europa