L'Iran ha ingannato la comunità internazionale, ha bloccato le ispezioni dell'Aiea nei siti nei quali arricchisce l'uranio. Promuove il terrorismo e lo proclama apertamente, minacciando di farne uso nel caso gli Stati Uniti decidano un attacco preventivo. Nella sua ideologia ufficiale e in decine di discorsi pubblici proclama la necessità di distruggere Israele. Nelle guerre che ha combattuto ha organizzato e glorificato l'immolazione di migliaia di bambini utilizzati per lo sminamento: lo stesso rispetto per la vita umana che ha portato un suo dirigente, generalmente giudicato pragmatico, l'ex presidente Rafsanjani a sostenere la razionalità di una guerra nucleare nella quale a 5 milioni di morti ebrei israeliani corrisponderbbero 15 milioni di morti islamici.
La lettera inviata da Ahmadinejad a Bush non contiene, già lo sappiamo, alcuna proposta sul tema centrale della crisi, quello della capacità nucleare.
Ma tutto questo, ci spiega Farian Sabahi in un articolo pubblicato in prima pagina da La STAMPA del 9 maggio 2006 può e anzi deve essere ignorato.
I dirigenti iraniani infatti agiscono in realtà secondo un codice di comportamento del tutto locale : la regola del "tarof" che prescrive di pronunciare sempre tre no prima di un qualsiasi sì. La seguono, ad esempio, i tassisti di Teheran, che per tre volte rifiutano di essere pagati, e gli ospiti, i quali, a tavola, per tre volte rifiutano di servirsi, rischiando di rimanere a stomaco vuoto se ignari iraniani da troppo tempo lontani dalla patria non rinnovano l'offerta il giusto numero di volte.
A noi sembrerebbe, dagli esempi fatti dalla Sabahi, che quella del tarof sia una regola di cortesia che richiede di rifiutare di prendere qualcosa (il denaro, il cibo..) dall'interlocutore, non di rifiutargli ciò che chiede e di impegnarsi con lui in un pericoloso braccio di ferro. Può darsi però che la Sabahi abbia solo scelto male i suoi esempi e che il tarof includa anche una sorta di "punto d'onore" persiano che impone di non cedere prima di aver tenuto duro per tre volte (ma a quel punto non si perde piuttosto del tutto la faccia? mah.. misteri del misterioso Oriente) In ogni caso, saremmo sorpresi se i dirigenti iraniani, ignari delle esigenze della diplomazia e della politica internazionale, seguissero, in vece di queste.. . il tarof, cioé il costume dei loro tassisti e anche il loro, quando mangiano.
Ma tale sorpresa, come scrivevamo all'inizio del nostro commento, deve essere abbandonata.
Quello della Sabahi appartiene infatti a un categoria di argomenti assolutamente cogenti, di fronte ai quali non resta che dichiararsi vinti.
Potremmo chiamarlo "argomento etnologico" e declinarlo così: io sono esperta ( o esperto) di una cultura della quale tu non conosci niente. Nel caso specifico, sono una super-esperta, perché da quella cultura provengo. E perciò posso assicurarti, sulla base del codice d'onore dei tassisti locali, che , all'interno di quella cultura, ciò che sembra nero é in realtà bianco, ciò che sembra una minaccia di guerra é in realtà una profferta di pace, e così via...
Caso mai qualcuno che possa vantare le mie stesse origini volesse contestarmi, ho già messo le mani avanti, per garantirmi il monopolio del ruolo di scout dei grulli occidentali nel mondo complesso e inafferrabile (senza adeguati sussidi) dal quale provengo: chi da troppo tempo manca dall'Iran, ignora il tarof come un qualsiasi non persiano.
Se Tatiana Boutorline o Caren Davidkhanian, sul FOGLIO o sul RIFORMISTA, da tempo descrivono il regime degli ayatollah in modo del tutto diverso da quello rassicurante di Farian Sabahi é solo perché da troppo tempo mancano dalle strade di Teheran, nelle quali la Sabahi può invece muoversi liberamente seppure, certo, sotto l'occhiuta sorveglianza dei Guardiani della rivoluzione e delle varie polizie politiche locali. Sulle quali comunque non é il caso di fare troppo scandalismo. Anche loro, si capisce, seguono il tarof. Dopo appena tre no sono disposti anche a rendere la libertà agli iraniani.
Non ci credete?
Ecco il testo:
QUANDO prendo il taxi, a Teheran, è sempre la stessa storia. A fine corsa, chiedo al conducente quanto gli devo e lui mi risponde: «Si figuri, non mi deve nulla!». La buona educazione prevede che il cliente chieda il prezzo tre volte. Solo allora il tassista dice la cifra da pagare, talvolta esorbitante. In persiano questi salamelecchi si chiamano «tarof» e, trasversali a ogni ceto sociale, sono parte della vita quotidiana. Anche a tavola l’ospite accetta il cibo solo dopo avere rifiutato tre volte.
Come dimostra la lettera inviata da Ahmadinejad a Bush, il gioco del presidente iraniano deve essere interpretato in quest’ottica: quando inveisce contro l’America intende l’esatto contrario e cerca un riavvicinamento che vuole però far pagare caro. Dopotutto, recita un proverbio, chi disprezza compra. E gli iraniani imparano fin da bambini a giocare a scacchi nonostante un divieto imposto dall’ayatollah Khomeini all’indomani della Rivoluzione e peraltro mai rispettato.
Queste strategie sono difficili da comprendere sia per gli occidentali sia per gli iraniani della diaspora. Qualche anno fa un amico iraniano, da tempo a Torino, portò a cena un giovane che aveva appena lasciato Teheran. Quando passammo con i piatti di portata il giovane iraniano rifiutò il cibo. Alla fine della serata non aveva mangiato nulla. L’amico che lo accompagnava riuscì a farsi dire che, essendo ospite di iraniani, pensava valesse la regola del tarof: avrebbe rifiutato il cibo tre volte prima di servirsi. Ma, al suo primo no, nessuno aveva insistito.
Analizzando il comportamento del presidente Ahmadinejad, occorre quindi tenere presente che si tratta di un personaggio cresciuto in una cultura diversa, indubbiamente più sofisticata di quanto si possa giudicare in prima battuta. Quando Ahmadinejad scrive a Bush proponendo «nuove soluzioni ai problemi internazionali e all’attuale fragile situazione mondiale», è ben consapevole dei molti interessi di Washington a un riavvicinamento.
Ecco tre esempi. In Iraq, gli iraniani potrebbero aiutare gli sciiti al governo a promuovere la stabilità e combattere la guerriglia di Al Zarqawi. In Afghanistan potrebbero collaborare con la coalizione internazionale grazie alla comunanza culturale, religiosa e linguistica: il persiano è parlato da parte della popolazione afghana e lo sciismo è la fede della minoranza Hazara. In Siria potrebbero fare pressione sul regime di Bashar al Assad affinché interrompa il sostegno al terrorismo.
Messo fine all’isolamento dell’Iran, la comunità internazionale sarebbe in grado di aiutare questo Paese a sviluppare un programma nucleare a scopi civili, in tutta sicurezza. Si riuscirebbe così a sottrarre Teheran alle grinfie dei russi di cui c’è oggettivamente poco da fidarsi visto che, vent’anni dopo Cernobil, costruiscono centrali atomiche in Iran, un Paese ad alto rischio sismico, senza dare garanzie al resto del mondo.
La lettera di Ahmadinejad è importante anche in politica interna. È la prima volta, dal 1979, che un leader iraniano scrive al presidente degli Stati Uniti. Ahmadinejad usurpa così, di fronte all’opinione pubblica iraniana, la posizione del pragmatico Rafsanjani, che nel giugno scorso aveva invitato la popolazione a votarlo con la promessa di organizzare un referendum per riallacciare i rapporti con Washington. Ma Ahmadinejad spodesta pure l’ex presidente riformatore Khatami che aveva fatto del dialogo tra civiltà il suo cavallo di battaglia. Scrivendo a Bush, Ahmadinejad si appropria dell’agenda politica dei suoi oppositori.
Oltre a fare il proprio gioco, il presidente iraniano fa anche quello dell’Occidente. Tendendo la mano a Washington, l’Iran fa scacco ad Al Qaeda, un movimento wahabita che disprezza l’Islam sciita. Dopotutto, gli iraniani non sono arabi e la loro cultura è indoeuropea, più vicina all’Europa di quanto si possa immaginare. Se ben accolta dall’amministrazione Bush, la mossa di Ahmadinejad potrebbe spiazzare Al Qaeda: un’alleanza tra la Repubblica islamica e gli Stati Uniti offre infatti ai giovani musulmani del pianeta un’alternativa all’estremismo di cui Al Qaeda si fa portavoce.
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