Al 5° TEkfestival di Roma, ci informa in prima pagina il supplemento culturale del MANIFESTO , ALIAS nel numero 17 (datato 27 aprile ) arriva il ritratto della prima "terrorista pacifista", Leila Khaled
Terrorista pacifista? Non sarà piuttosto la prima pacifista terrorista?
All'interno del giornale troviamo un'intervista di Cristina Piccino a Mohammed Bakri, autore del film "Jenin , Jenin..."
Durante un processo svoltosi in Israele Bakri ha ammesso le falsificazioni del film, incentrato su di una falsa strage che é esistita solo nella propaganda palestinese.
Nell'intervista ad ALIAS invece, Bakri rilancia le sue menzogne e accusa Israele di averlo perseguitato (in realtà il film é addirittura circolato nelle sale israeliane dopo che ne era stata dimostrata la falsità, suscitando la protesta dei soldati israeliani impegnati nella battaglia di Jenin che vi sono calunniati).
Francesca Leonardi intervista il regista giapponese Koji Wakamatsu, autore di un documentario sui rapporti con l'Fplp palestinese e l'Armata rossa giapponese. Gruppo che, lo ricordiamo, é responsabile della sanguinosa strage all'aereoporto internazionale di Lod. Anche loro "pacifisti" ?
Di seguito, i due testi:
Ecco , "Bakri, il pesottimista":
«Eccomi tornato in patria clandestinamente, sano e salvo, mentre tutto il mio popolo vagava fuggiasco, e se non fuggivano da soli, li facevano scappare per forza». Scrive così, nel Pessottimista, Emil Habibi, scrittore arabo di Israele, nato nel 1922 e scomparso nel ‘96, intellettuale e pensatore lucido, armato di ironia e di quella capacità speciale con cui sorridere ai difetti dei palestinesi e smascherare i loro oppressori. Il pessottomista parla dell’occupazione, dal ‘48, quando i palestinesi vengono brutalmente cacciati dalle loro terre, le loro case distrutte o confiscate seguendo i passi del protagonista che fugge e poi torna i patria dove vive da straniero. Come il suo autore, che restò in Israele, venne eletto nel partito comunista, criticato dai palestinesi ma anche amato. Che Mohammed Bakri incontrasse nella sua vita Emil Habibi e ne facesse il punto di riferimento del suo pensiero è un po’ più che una coincidenza. Come Habibi, Bakri è arabo israeliano, vive in Israele dove è una star popolarissima cosa che non gli impedisce di esercitare una continua critica politica contro l’occupazione e la violenza che comporta. L’utopia nelle sue immagine e nelle sue parole a teatro è la coesistenza pacifica tra arabi e israeliani detta senza retorica e senza compromessi. Con la potenza della riflessione, del sentimento, della verità. Sarà per questo che gli israeliani quando lui mostra al mondo in Jenin Jenin i massacri compiuti nella città dal loro esercito, non gliela perdonano. Una vera persecuzione, il film viene vietato, Bakri accusato di tradimento, di antisemitismo. Da qui nasce Da quando te ne sei andato (Since you’ve been gone), a Roma grazie al Tekfestival, una lunga conversazione tra il regista e Habib. Che racconta il suo conflitto con Israele e il conflitto più grande di tutta la Palestina. Lo vediamo camminare, Bakri, riconosciuto dalla folla, insultato da una donna, opporsi alla legge, alla censura, infine vincere la causa dopo anni e una tale aggressione che rompe ogni speranza. Ne parliamo con Bakri al telefono. E in Israele, a casa. Tra poco lo aspetta il set dei fratelli Taviani. Come sei arrivato a « Da quando te ne sei andato » ? Dopo Jenin Jenin ho subito un processo molto violento dagli israeliani, e sapevo che non era giusto perché nel farlo avevo seguito i miei sentimenti. Jenin Jenin, è cominciato durante una manifestazione. Eravamo davanti ai check point e i soldati israeliani hanno cominciato a spararci addosso. Unamia amica è stata colpita, non è morta ma ha quasi perduto la mano. Mi sembrava di impazzire, ho pensato: se un soldato spara così su di noi, sotto agli occhi del mondo, cosa fanno nei campi ? Questo pensieromi ha spinto a entrare a Jenin, che era chiusa anche alla Croce Rossa, e filmare. Gli israeliani però non lo hanno accettato, hanno cercato di distruggermi politicamente e come artista, dicevano che ero un terrorista, che ero antisemita mentre per tutta la vita e in tutto il mio cinema ho sempre creduto e combattuto per la pace e l’amore tra le persone. C’era qualcosa di sbagliato in tutta questa storia e così, quasi per capiremeglio o forse per difendermi ho iniziato a documentare quanto vivevo in quei giorni. Mi sono reso conto che stava diventando un film solo quando sono arrivato al montaggio. Hai scelto come interlocutore Emil Habibi, e il vostro dialogo è quasi immaginario, visto che Habibi è morto 10 anni. È stato il mio maestro, e lo scrittore che più amavo, i suoi racconti sono molto belli e importanti, hanno una visione ottimista, in lui vedo un modello di speranza e di dignità. Per questo mi sembrava importante provargli a raccontare che cosa vive il nostro paese da quando lui non c’è più. In questi anni il conflitto tra Israele e Palestina sembra essersi indurito, il futuro sembra molto difficile. Cosa era importante per te dire in un dialogo «a distanza»? La seconda Intifada ha reso la nostra realtà molto dura. So bene che la disperazione, l’umiliazione, la fame, la violenza dell’occupazione scatenano altra violenza. Ma Habibi che come me era contro la violenza non avrebbe condiviso le attuali forme di lotta. Combattere uccidendo insieme a te altre persone innocenti non ha senso. Parli dei kamikaze ? Intanto qualche giorno fa l’Europa ha deciso di sospendere gli aiuti alla Palestina contro il nuovo governo diHamas. Hamas ha vinto le elezioni, io non li ho votati e non avrei mai voluto che fossero eletti ma credo che la comunità europea come gli Stati uniti non si comportino in modo democratico. Dovrebbero permettere a Hamas di mettersi alla prova, forse cambierà il modo in cui affrontano le cose, forse cambieranno le loro coordinate politiche, riconosceranno Israele. Non mi piace Hamas, l’idea di uno stato religioso nonmi appartiene come non mi appartengono i fanatismi ma credo che essere democratici non significa giudicare quanto offrire delle opportunità. Cosa accadrà invece adesso ? Saranno i palestinesi a soffrire la fame, non Hamas. È la gente che in Palestina non ha soldi né cibo né lavoro.Questa decisione della comunità europea è molto, molto crudele. In generale però l’occidente non si sforza di comprendere cosa vuol dire vivere sotto un’occupazione. Il che aiuterebbe anche a capire i meccanismi che hanno portato alla vittoria diHamas. Il mondo si occupa molto poco di cosa è il quotidiano in Palestina. Per questo condannano la vittoria di Hamas. Ci sono molte ragioni con cui spiegarla e non sono certo divertenti. La gente era delusa dall’autorità palestinese, si sentivano abbandonati, stretti in un angolo. Vivere sotto l’occupazione annulla la speranza: non hai più nulla da perdere. Non c’è futuro e il presente è disperazione. La scelta di Hamas nasce qui. Ripeto, non sono religioso e condanno ogni fondamentalismo ma questo modo di pensare non puo’ valere per chi si sente umiliato, e ha fame. La diffusione di un’idea religiosa che è anche politica usata per costruire un conflitto non riguarda però solo la Palestina. È l’occidente contro l’oriente, il nord contro il sud, il bianco contro il nero, il ricco contro il povero, il potente contro il debole... Lo sappiamo bene purtroppo. L’Academy awards ha rifiutato la candidatura di Private, di cui sei sei interprete, a rappresentare l’Italia nella categoria «miglior film straniero». Motivo: il regista Saverio Costanzo è italiano ma nel film non si parla italiano. So che in Italia non è stato un grosso scandalo e questo mi conferma che è una decisione politica, la lingua è un pretesto. La politica è dappertutto, Private non èmai stato mostrato in Israele, a parte una proiezione al festival di Haifa . È ancora una scelta politica, il governo israeliano non vuole che i suoi cittadini vedano come si vive sotto l’occupazione, quanto può essere atroce questa realtà. Preferiscono che si creda che i palestinesi sono tutti fanatici o kamikaze, sapere invece che molte persone in Palestina, la maggioranza, come il protagonista del film sono contro la violenza rende difficile giustificarne l’uso da parte degli occupanti, l’esercito israeliano. Private è una metafora della società palestinese, il padre, la madre, i figli ne rappresentano ognuno una tipologia. Cosa ti aspetti dal nuovo premier israeliano Olmert ? E che impressione hai avuto quando Sharon ha annunciato il ritiro dai territori ? Nessuna, non ci ho mai creduto. Sharon ha lasciato i territori intorno a Gaza che è un luogo molto lontano dalla Palestina, nel sud, mentre la maggioranza degli insediamenti sono nella West bank. È stato il solito gioco politico che non affronta i problemi principali. Cioè liberarci da tutti gli insediamenti, la condizione dei palestinesi rifugiati nei campi, almeno tre milioni e mezzo di persone tra Siria, Giordania e Libano. E la questione di Gerusalemme, la vogliono unificare annettendo per sempre anche la parte est a Israele. Poi c’è il muro che divide famiglie, villaggi... Non c’è nessun accesso all’esterno per i palestinesi, il mare è proibito. Come fa l’economia a andare avanti? Io sopravvivo perché faccio film, anche se non in Israele che non è un paese democratico. E non si impegna seriamente nella pace. Quanto a Olmert è come Sharon, una copia. Forse è appena un po’ più magro, e più giovane... Potrebbe essere una stella del cinema, begli occhi, un bell’aspetto, un certo fascino. I palestinesi tra l’altro oggi non possono neanche lavorare in Israele... Sono stati sostituiti da altri poveri, cinesi, filippini, pakistani, tutti senza documenti e dunque costretti a lavori tremendi e pagati nulla. È stato molto triste quando uno degli ultimi kamikaze a Tel Aviv si è fatto esplodere in un posto frequentato soprattutto da immigrati. Molti feriti non sono neppure andati all’ospedale, avevano paura di essere presi dalla polizia. Neppure la «cultura» del kamikaze si limita alla Palestina, anzi dilaga nelmondo. Lo sai chi è stato il primo kamikaze ? Sansone anche se non credo che gli episodi attuali abbiano a che fare con la memoria biblica. E non penso neppure che il kamikaze sia una «cultura», uccidere la gente è piuttosto un’anti-cultura. La cultura, se così possiamo chiamarla, è della disperazione, dell’umiliazione, della mancanza di prospettiva. Quando non si ha un amore, una casa, una famiglia, quando si sente di non avere dignità non c’è più altro da perdere e allora vai e uccidi te stesso con gli altri. Lo facevano anche i giapponesi nella seconda guerra ma i loro obiettivi erano militari. Non abbiamo il monopolio del kamikaze. Torniamo a «Jenin Jenin»: anche in Europa chi critica il governo israeliano è subito considerato antisemita... Confondere la gente con i governi è assurdo, è come se dicessi che odio tutti gli italiani perché critico Berlusconi (l’intervista è stata fatta il giorno prima delle elezioni, ndr). Se dici che Israele occupa un altro paese emassacra i suoi cittadini , ecco che diventi antisemita, un nazista. Chi vive in Europa non riesce a fare una differenza tra l’essere ebrei e il governo israeliano, tra Sharon e la gente. Ho sempre parlato dell’occupazione nei miei film o a teatro senza che nessuno possa accusarmi di essere antisemita. Ma con Jenin Jenin è stato così, hanno detto che odiavo gli ebrei... Erano furiosi perché Mohammed Bakri invece di comportarsi da bravo ragazzo e non dire nulla che possa dar fastidio, ha mostrato al resto delmondo a cosa porta l’occupazione. Essere ebrei non centra. È il governo il responsabile per il quale non ho nessun rispetto, come per nessun governo che facesse la stessa cosa, in Italia, in Francia, ovunque. Jenin Jenin non è più proibito ora in Israele,mi sono rivolto alla corte suprema, ho lottato per due anni e infine ho avuto ragione. Ma era troppo tardi, avevo perduto il confronto con l’attualità.
Di seguito "In Palestina nel 71 con l'Internazionale":
Nella primavera del 1971, il regista giapponese Koji Wakamatsu e lo sceneggiatore Masao Adachi partono per girare un documentario in Palestina. Lì raggiungono Fusaku Shigenobu, leader dell’Armata rossa giapponese (Nihon Sekigun), partita per il Libano nel febbraio dello stesso anno, e in contatto con il Fplp, Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fusako Shigenobu è stata condannata pochi giorni fa a 20 anni di prigione). Un anno prima anche Godard era andato in Palestina con il gruppo Dziga Vertov. Ma Jusqu’à la victoire girato per Al Fatah non vedrà mai luce (parte delmateriale girato verrà riutilizzato alcuni anni dopo in Ici et ailleurs). Wakamatsu e Adachi portano invece a termine il loro progetto. Armata rossa – Fronte popolare di liberazione della Palestina: dichiarazione di guerra al mondo è un documento prezioso, uno sguardo dall’interno portato sulla lotta armata internazionale dell’inizio degli anni Settanta. Il film inizia con le immagini dell’esplosione di uno degli aerei dirottati nel settembre 1970 nel deserto della Giordania, primo atto clamoroso del Fplp che porta l’attenzione internazionale sulla questione palestinese. Quindi si alternano interviste ai guerriglieri - uomini e donne (come Leila Khaled, che vediamo insieme a Wakamatsu nelle due foto in alto) che teorizzano l’internazionalizzazione della rivoluzione anticapitalista e antimperialista e si richiamano ai Vietcong, alle Black Panthers, e ai Tupamaros (il gruppo di guerriglia urbana uruguayana) -, cartelli che sintetizzano i principi della lotta e momenti di vita quotidiana al campo di addestramento: preparazione dei pasti, caricamento della armi, esercitazioni, lettura dei testi di riferimento del marxismoleninismo. Le note dell’Internazionale fanno da colonna sonora. Un documento rarissimo, che segna in profondità la vita dei due autori: Masao Adachi deciderà di seguire la causa del Fplp (arrestato in Libano nel 1997, estradato in Giappone, Adachi è tornato in libertà solo da due anni); mentre Wakamatsu tornerà in Giappone: «Tu devi continuare la tua azione politica attraverso il cinema», gli avrebbe detto Adachi. Ma a causa de film verrà perquisito decine di volte, arrestato in Francia e in Russia e colpito dal divieto di soggiorno negli StatiUniti. Proprio in quanto documento eccezionale, Armata rossa/Fplp, film politico ma privo di sesso, è stato presentato alcune settimane fa a Parigi, nel corso del Festival «Sex is politics». Com’è nato il progetto di «Armata rossa – Fronte popolare di liberazione della Palestina: dichiarazione di guerra al mondo»? Prima di realizzare questo documentario avevo girato un film molto commerciale, Kamasutra (1970) dal libro sacro hindi, che ha fatto degli ottimi incassi. Un giorno ho chiesto ad Adachi: «Che ne facciamo di questi soldi?». Lui mi ha risposto: «Perché non andiamo in Palestina?». In Palestina? All’epoca partecipavamo alla lotta contro la guerra in Vietnam, ma della Palestina non si sapeva niente. Lui mi ha detto che avremmo potuto filmare le attività del Fplp di Habbash. Quell’anno ero stato invitato a Cannes per presentare due film (Sex Jack e La Vierge violente alla Quinzaine des réalisateurs), così gli ho proposto di partire dopo Cannes. Adachi mi diceva che con il film sulla Palestina avremmo guadagnato bene, tutte le televisioni lo avrebbero comprato. Ho accettato di partire perché pensavo di guadagnarci, della questione palestinese non ne sapevo niente. Gli ho chiesto se conosceva qualcuno che avrebbe potuto aiutarci lì. E lui mi ha detto che Fusaku Shigenobu era a Beiruth. La conoscevo perché ci eravamo incontrati nei bar di Shinjuku, dove andavo con Oshima, e lì Shigenobu raccoglieva fondi per l’Armata rossa con il suo cappello. Inoltre Adachi mi ha detto «Neppure Godard è riuscito a fare un film in Palestina». Questo mi ha motivato ulteriormente. Adachi sapeva che era facile convincermi. In un certo sensomi ha ingannato. È un grande imbroglione! Quanto siete rimasti in Palestina? Io un mese in tutto. Siamo arrivati in Libano, a Beiruth. Dopo una settimana siamo riusciti a entrare in contatto con l’Fplp. Abbiamo cominciato con le interviste, nei campi di Chatila, poi in Siria nella pianura di Golan e in Giordania sulle alture di Jarash. Lì abbiamo incontrato il commando della guerriglia. Eravamo i primi stranieri ad arrivare su quelle montagne. Il capo ci ha chiesto: «Se vi trovate di fronte al nemico prendereste il fucile o la macchina da presa?». Per far bella figura ho risposto «il fucile». Allora ci hanno requisito il materiale e ci hanno obbligato a seguire le esercitazioni. Abbiamo vissuto così per due settimane. Un giorno il commando ci ha detto che potevamo filmare tutto quello che volevamo in una giornata e ci ha concesso tutte le interviste che volevamo, ma ci ha imposto di andarcene la sera. Abbiamo girato e la sera hanno organizzato una cena di addio. Poi siamo ripartiti per la Siria e per Beiruth. Qualche giorno dopo abbiamo visto in prima pagina una foto di molte persone che avevamo incontrato, membri della guerriglia, impiccati dall’esercito di Giordania e di Israele. Allora abbiamo capito perché ci avevano imposto di partire quella sera. Il capo, assassinato dall’esercito israeliano due anni fa, era stato informato della possibilità di un attacco. In quel momento ho capito che avevo sbagliato a partire per ragioni economiche e che bisognava assolutamente portare il girato in Giappone per far conoscere il problema della Palestina. Sono tornato in Giappone passando dalla Francia e Adachi è rimasto altre due settimane per fare riprese di paesaggi. Mi sono veramente vergognato di essere partito pensando al guadagno. Le mie opere sono cambiate in seguito. Al mio ritorno in Giappone ho fatto L’estasi degli angeli, un film molto aggressivo. Poi, con il proseguire del terrorismo, dei dirottamenti di aerei, ecc., nessuna società di distribuzione voleva i miei film, avevano paura dime.Ma non ho nessun rimpianto di aver girato questo documentario e penso che non ne avrò mai. All’inizio del film c’è l’esplosione di uno degli aerei dirottati nel 1970 nel deserto giordano. Da dove viene l’immagine? Sono immagini che ci ha procurato l’ufficio stampa del Fplp, si chiamava Ghassan Kanafani, romanziere e poeta. È stato ucciso da un’autobomba con la figlia di 17 anni nel luglio del ‘72. Come avete lavorato al montaggio? È stato soprattutto Adachi ad occuparsi del montaggio. Ha costruito il film seguendo le sue idee politiche e si è occupato anche del suono in post-produzione. Io mi sono occupato delle questioni finanziarie e organizzative: ho comprato un pullman con il quale abbiamo fatto una tourné per proiettare il film e ho trovato i soldi per affittare lo studio dimontaggio. Il film in seguito ha più circolato? La tournée con il bus è durata sei mesi. Tra le persone che ci hanno aiutato c’era Kozo Okamoto, che poi ha partecipato all’attentato dell’aeroporto di Lod a Tel Aviv e oggi è rifugiato politico in Libano. C’era Haruo Wako, che poi ha partecipato alla presa di ostaggi all’ambasciata francese dell’Aia, in Olanda ed è ancora sotto processo. Molti di loro oggi mi detestano. In seguito il film è stato proiettato ogni tanto nelle Università. Sta preparando un film sull’Armata rossa giapponese... Sarà un film di finzione basato su fatti storici. Vorrei riflettere attraverso questo film sulla nascita dell’Armata rossa e sui conflitti interni, le ragioni della sconfitta e dell’autodistruzione del gruppo. All’epoca c’erano vari gruppi in Giappone che operavano separatamente. Durante delle esercitazioni congiunte alla lotta armata molti sono arrestati. Altri sono partiti, chi in Corea del Nord, chi in Palestina. Tra quelli che non sono partiti, che non sono morti e che non sono stati arrestati, vi erano due gruppi, quando le due fazioni si sono unite è nata l’Armata rossa unificata (Rengo Sekigun).Hanno cominciato a fare esercitazioni armate, ma poi sono nati dei conflitti interni e si sono uccisi tra compagni. Infine, i pochi rimasti sono fuggiti nello Chalet di Asama (febbraio 1972) e hanno preso degli ostaggi. La polizia ha distrutto lo chalet e tutti i membri sopravvissuti sono stati arrestati. Il mio film arriverà fino a questo punto. Durerà circa tre ore e costerà molto. Anche se sono uno specialista di film a basso costo, non sarei capace di farlo con un piccolo budget. Userò la mia casa di vacanza in montagna per le riprese e certo la distruggerò. L’ho costruita grazie agli incassi dei miei film, perché non distruggerla per il cinema? Alcune grandi case di produzione sarebbero pronte a partecipare al progetto, il film incasserà sicuramente bene,ma non voglio il loro aiuto. Voglio fare il film a modo mio, anche se non sono sicuro di riuscire a portarlo terminarlo.
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