La vittoria sionista conversazione con Vittorio Dan Segre
Testata: Il Foglio Data: 04 maggio 2006 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Israele non è mai stato così vivo dai tempi di Salomone»
Roma. “Abbiamo un solo nemico: gli ebrei. E io continuerò a usare il mitra e a schiacciare il grilletto ovunque sia necessario”. Lo ha affermato al Sunday Telegraph Jamal Abu Samhadana, clanista di Rafah e neodirettore del ministero degli Interni palestinese. In Israele i giorni della retorica annientalista, soprattutto iraniana, hanno lasciato il posto a quelli del lutto e della memoria, non ferro vecchio ma calce viva dell’identità nazionale. Sono state le ore del “kaddish” collettivo, in cui si ricordavano i 22.123 soldati caduti dalla proclamazione dello stato e le 3.846 vittime ebraiche negli attentati dalla prima ondata immigratoria nel 1882. Il dolore in Israele è la nota che precede il ritorno della speranza e della gioia, fa parte di quello che Jacques Maritain definiva il suo “mistero permanente”. Per usare le parole di Guido Ceronetti, “Eretz Israel non è il nostro interno malato d’Oriente: là una giovane forza bagnata di berakà (benedizione) vitale vive ora il suo tracciato di gioia, la seconda parte del salmo, dopo quella di lamento e di obbrobrio”. Un evento insopportabile per “le nostre mummie gelose dei loro coperchi”. Lo testimoniano i nuovi dati del Central Bureau of Statistics di Gerusalemme, diffusi in occasione della 58esima Giornata dell’Indipendenza: per la prima volta dopo il primo secolo d.C., in Terra d’Israele vivono più ebrei che in qualunque altro paese del mondo. Isaiah Berlin diceva che essere sotto la minaccia di sterminio stimola negli israeliani “certe virtù, certe forme di altruismo, una concreta occasione di mostrare una generosità”. Sentimenti che si traducono in aliyah, movimenti di ritorno e tassi di crescita positivi. Negli anni ’20 Albert Londres scriveva su Petit Parisien: “Dal giorno della posa della prima pietra, gli arabi hanno replicato: tu sarai distrutta”. Nonostante sessant’anni di guerre, aggressioni e bombe umane, il sionismo ha vinto. Ne parliamo con Vittorio Dan Segre, testimone e protagonista della nascita d’Israele. “Questa commemorazione è sempre stata fonte di grandissima tensione. Il passaggio immediato dal silenzio cupo del ricordo allo scoppio della gioia sfrenata e mediterranea dell’indipendenza crea una tensione psicologica non ancora esaminata a fondo. Israele vive la gioia inconscia dello scampato pericolo e del miracolo. I dati sulla presenza ebraica indicano una grande metamorfosi della nostra storia. Il fatto che Israele rappresenti una comunità ebraica più importante della diaspora, che questo avvenga per la prima volta dai tempi della distruzione del Tempio di Salomone e spostando il baricentro della vita ebraica da occidente a oriente, è un’autentica trasformazione. L’assedio arabo ha consolidato la popolazione di Israele e la sua abitudine al pericolo. Amos Oz dice che la vita di una persona può essere normale, si alza, mangia, studia, fa l’amore e litiga, anche quando vive alle falde di un vulcano”. Esiste anche un fenomeno emigratorio, come quella Germania tornata ad essere la terza comunità ebraica d’Europa grazie agli emigranti israeliani. “Il sionismo classico è finito – dice Segre – A differenza degli altri movimenti indipendentisti, il sionismo è nato per le ragioni sbagliate. Se gli altri volevano la liberazione dal giogo straniero, gli ebrei chiedevano di essere parte integrante delle società in cui vivevano. Il sionismo non nasce dalla volontà di avere uno stato, ma dal rifiuto delle nazioni europee di accettare l’abbandono dell’identità ebraica. Oggi invece chi viene in Israele lo fa per mantenere la propria identità, non per reazione al rifiuto dell’assimilazione. Sionismo oggi significa invece che la caccia libera e gratuita all’ebreo è finita. La caccia continua, ora però c’è da pagare un prezzo”. Secondo Segre l’odio viscerale che gli antisemiti e gli antisionisti nutrono e diffondono verso gli ebrei non si può più spiegare con l’esclusivismo nazionalista e razzista primonovecentesco. “Quest’odio è semmai la reazione al risveglio del fossile, un’idea che prendo da Arnold Toynbee. Fossili sono quelle civiltà morte che continuano ad avere un’influenza su quelle vive. Israele fa paura perché un fossile, ritenuto tale da almeno 1.800 anni, non solo rinasce, ma si risveglia. E’ come nella profezia di Ezechiele, le ossa morte di Israele si risveglieranno in due tempi: si ricopriranno di carne, di nervi e si ricongiungeranno; poi lo spirito divino le farà rinascere”. Testimone della costruzione, pietra dopo pietra, di quella “Torre d’Esdra che cancellerà la Cosa che Bisogna Dimenticare”, la Shoah, Arthur Koestler nel 1949 notava che quando una palla da golf da sola si mette in moto ed entra in buca, si tratta di un avvenimento raro, ma scientificamente spiegabile. Quando invece la palla continua a muoversi da sola e ad entrare di buca in buca, quello è un miracolo. Chiamato Israele. Ai tempi della guerra del 1967 circolava una barzelletta sui timori di un’emigrazione di massa: “L’ultimo che lascia l’aeroporto di Tel Aviv, per favore spenga la luce”. L’anno dopo in 40.000 baciarono le piste dell’aeroporto, come avevano fatto i primi paracadutisti di fronte al Muro del Pianto: appoggiarono il capo, in lacrime, sulle pietre, “atto il cui simbolismo non ha paragoni nella storia umana”, come disse nel luglio del 1967 l’allora Capo di stato maggiore, Itzhak Rabin. lettere@ilfoglio.it