Crisi iraniana:il disinteresse dell'Italia e il falso mito del "consenso" all'atomica dei mullah due analisi lontane dai luoghi comuni
Testata: Il Foglio Data: 04 maggio 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione - Tatiana Boutourline Titolo: «Italia e Teheran - I mullah e il consenso»
Il FOGLIO di giovedì 4 maggio 2006 pubblica in prima pagina due articoli sulla crisi iraniana. Uno sull' ancora indefinita politica del nostro paese, che riportiamo di seguito:
Roma. I grandi paesi discutono dentro e fuori il Consiglio di sicurezza la risoluzione Onu sul nucleare iraniano di cui ieri è stata presentata la prima bozza. In Italia non c’è nessuno che affronti il tema. Eppure questa volta non si tratta di distanti questioni di politica estera con effetti indiretti e non immediatamente visibili nel nostro paese: l’Italia è il primo partner commerciale europeo dell’Iran e le sanzioni, al di là del dibattito sulle conseguenze in caso di violazione e sull’opzione militare per fermare la corsa al militare degli ayatollah, riguardano il divieto di alcune attività commerciali con il regime di Teheran. Se le sanzioni passassero, come è probabile, il sistema Italia potrebbe subire un grave colpo economico. Possibile che i pretendenti al governo non se ne occupino? L’interscambio tra Italia e Iran ha raggiunto, nel 2004, i 4 miliardi e 322 milioni di euro e i dati del 2005 rispettano il trend. Il saldo tra esportazioni e importazioni è lievemente negativo e la nostra posizione è insidiata da Francia e Germania, ma i margini di manovra nell’economia iraniana restano ampi. Le banche iraniane hanno depositi in Italia per oltre 7 miliardi di euro, nell’ultimo quadriennio le imprese italiane si sono aggiudicate appalti nel settore siderurgico, petrolchimico, petrolifero ed energetico e le richieste di autorizzazione agli investimenti aumentano. Nel 2001 l’Eni è stata la prima impresa a ottenere un contratto per lo sfruttamento di un giacimento a Darquain. E’ italiana anche la tecnologia del primo satellite iraniano lanciato nello spazio. Da presidente della Camera, Luciano Violante ha avuto buoni rapporti con la leadership riformista di Teheran, così come Romano Prodi nella veste prima di premier poi di presidente della Commissione europea. Al Foglio, Violante ricorda che è stato il governo Berlusconi a non volersi occupare della crisi iraniana, rifiutando di partecipare alle trattative diplomatiche sul nucleare condotte dalla troika Ue. “Il nostro governo di non c’è ancora, ma appena si formerà l’Iran sarà una priorità da affrontare con i partner europei”, assicura Violante confermando che la Farnesina spetterà al suo partito: a Massimo D’Alema, o a Piero Fassino se a D’Alema riuscisse il colpaccio del Quirinale.
La Farnesina andrà ai Ds. Violante, Minniti, Ranieri e Padoan parlano delle sanzioni all’Iran Il ministro degli Esteri iraniano, Manuchehr Mottaki, criticando la posizione “illogica e inappropriata” dell’Europa, ha accusato l’occidente di “avidità sui mercati iraniani”, infilandosi nel cuneo tra economia e politica su cui interverranno le sanzioni Onu. Violante è contrario a questa misura che spesso “rafforza i regimi e criminalizza i nostri potenziali amici”. L’ex presidente della Camera aggiunge che Cina e Russia “violeranno le sanzioni” e non dimentica “il diritto iraniano alla propria sovranità energetica”. Il dalemiano Pier Carlo Padoan, direttore della Fondazione Italianieuropei, entra nel merito e riconosce che se il partner non è affidabile, il sacrificio economico è inevitabile, anche se “non necessariamente efficace”. L’Italia, secondo Padoan, “pagherebbe un prezzo elevato nel caso fossero introdotte misure restrittive economiche, ma senza sicurezza non c’è commercio estero che tenga”. Più cauto il responsabile esteri dei Ds, Umberto Ranieri: “L’occidente deve essere compatto e deve continuare a negoziare, mentre le sanzioni è meglio che siano decise il più tardi possibile, ma se arriveranno la sicurezza internazionale dovrà prevalere sull’interesse economico”. Marco Minniti, responsabile della difesa dei Ds e dalemiano di ferro, è convinto che le sanzioni siano un’arma deterrente da non sfoderare subito: molto meglio il “grande patto” tra Washington e Teheran. La stessa posizione della tradizionale destra realista americana, esplicitata dal presidente della Commissione Esteri del Senato, Richard Lugar.
E uno che contesta la vulgata del "sostegno popolare" ai piani atomici dei mullah:
Roma. Se Mahmoud Ahmadinejad ha un pregio è quello di rifuggire dall’ambiguità: è chiaro anche a un bambino che il “sacro diritto al nucleare” è uno dei temi che gli stanno più a cuore. Ma gli iraniani da che parte stanno? E’ davvero possibile che gli stessi figli della rivoluzione scesi in piazza per invocare libertà si schierino oggi compatti dietro il loro presidente sull’onda di un indomabile amor patrio? A guardare la televisione iraniana parrebbe proprio di sì: basta osservare le catene umane davanti alle installazioni, ascoltare gli slogan e leggere i cartelli durante le manifestazioni. Le inquadrature non lasciano dubbi e gli osservatori rincarano la dose: non è un mistero che, se c’è un tratto comune agli iraniani, questo è proprio l’orgoglio nazionale. Va da sé quindi che il nucleare, civile o militare che sia, rappresenta per tutti una conquista. L’Iran sta con Ahmadinejad. Fosse così sarebbe davvero una rivoluzione nella rivoluzione perché dal 1979 non si era mai vista una tale identità di vedute tra il regime e il paese e infatti, psicologismi a parte, non c’è. O meglio, nessuno sa quali siano le opinioni degli iraniani a riguardo perché nessuno è autorizzato a dar voce a pensieri “pericolosi per la solidarietà e la sicurezza nazionale”. La disposizione arriva dall’alto e coinvolge radio, tv, agenzie di stampa e giornali. Prima sono state diramate apposite circolari, poi sono arrivate le direttive del Supremo consiglio per la sicurezza nazionale con i direttori dei principali quotidiani convocati da Ali Larijani in persona. Chi non si è adeguato – come i giornali Sharq e Etemad-e-Melli – è stato raggiunto da un richiamo del temibile Prosecutore generale di Teheran, Said Mortazavi. Gli iraniani hanno capito che, di tutte le linee rosse del regime, il nucleare è senza dubbio la più azzardata da valicare e siccome sulla questione il dibattito pubblico è inesistente, cercano di essere prudenti. Bisognerebbe vivere con la paura di dire qualcosa di sbagliato per capire certe occhiate nei taxi quando l’autista alza la radio e lo speaker inneggia al sole nucleare. Bisognerebbe vivere con il ricordo di otto anni di guerra sanguinosa alle spalle e l’incertezza del futuro per capire l’ambivalenza degli iraniani. Il marketing nucleare di Ahmadinejad è riuscito a presentare la questione come una prova del relativismo occidentale. Pachistani, indiani e israeliani hanno il nucleare civile e la Bomba. E’ questo il ritornello ricordato incessantemente agli iraniani, con la discriminazione: ci vogliono impedire di conseguire quel progresso tecnologico cui da anni lavorano i nostri scienziati. Posta in questi termini la faccenda, con gli opportuni richiami alla grandeur perduta e all’occasione di riscatto, non c’è da sorprendersi che gli iraniani abbiano un sussulto. Sarebbe diverso se fosse domandato che cosa sono disposti ad affrontare per difendere questo diritto. Secondo il quotidiano Roozonline, il regime questo interrogativo se lo è posto e un sondaggio top secret ha stabilito che il 69 per cento degli iraniani non considera la questione nucleare “una priorità nazionale” e ritiene – all’86 per cento – che non valga la pena di affrontare la guerra per averlo. Il 98 per cento pensa che un conflitto sia inevitabile e non lo vuole e basterebbe spostare l’inquadratura dai manifestanti a pagamento del regime per accorgersi che l’iraniano medio si sveglia pensando a come arrivare a fine mese e non al suo “inalienabile diritto nucleare”. Sarebbe bastato allargare il campo della telecamera lunedì scorso per far vedere come la contro-manifestazione dei lavoratori abbia ridicolizzato gli inni al nucleare del partito dei martiri. Doveva essere l’ennesima dimostrazione di giubilo per l’ingresso nel club atomico, ma le voci cantilenanti dei Bassiji sono state sopraffatte da grida più forti. “Scioperare è il nostro diritto inalienabile”, hanno scritto sui cartelli i controdimostranti, “mantenete altre promesse prima del nucleare”.
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