Intervista di Alain Elkann a David Grossman pubblicata su “Specchio” del 29 aprile 2006
Grossman, parliamo di letteratura e politica: che cosa significa, nel profondo, essere uno scrittore israeliano? “L’obiettivo deve essere questo: scrivere di situazioni intime che appartengono a una realtà pubblica fin troppo evidente”.
Lei si sente in qualche modo parente dei grandi scrittori ebrei, Kafka, Bellow, Singer o Roth? “Sì, molto, nel senso che ognuno di loro scrive cose da outsiders, ai margini di qualsiasi cultura. Meglio. Anche se appartengono a una cultura, sono ugualmente degli outsiders, e io mi sento allo stesso modo”.
Che rapporti ha con l’Italia? “Ogni volta che mi reco nel Vostro paese, mi sento a casa. Nell’osservare le reazioni ai miei libri avverto che ci sono molte cose simili tra israeliani e italiani. Se in Israele potessimo avere il lusso di stare in pace potremmo lasciare emergere e vivere le nostre qualità “italiane”.
La vita in Israele dopo la malattia di Sharon, le elezioni nazionali e quelle palestinesi: è cambiata? “In un certo senso la situazione migliorata: la maggioranza degli israeliani ha accettato l’idea che l’occupazione deve cessare e che ci debba essere uno Stato palestinese. Ma, come molte altre volte, siamo molto vicini a raggiungere la pace e, contemporaneamente, anche molto lontani”.
E il ruolo dello scrittore quale deve essere? “Non deve arrendersi ai cliché dei grandi sistemi (governi, media, eserciti) per ritrovare e proclamare l’individualità. Le comunicazioni di massa ci stanno trasformando in uomini senza volto, anonimi, una massa di persone con un solo volto. Gli scrittori hanno un ruolo molto più ristretto di quello che avremmo pensato: se la loro influenza fosse più importante, per esempio, Israele sarebbe oggi in una situazione diversa”.
Come si vive tra le mille suggestioni di Gerusalemme? “Non voglio distruggere una certa visione romantica di Gerusalemme, ma il conflitto tra cultura e religione, l’asperità tra ambizioni politiche e religione è così tesa che io e la mia famigliari siamo spostati in uno dei sobborghi più remoti. Gerusalemme dovrebbe essere una metafora, il modello della pace futura in cui tutte le grandi religioni si sentano a casa propria”.
Che cosa la preoccupa maggiormente? “in primo luogo, come ogni israeliano, c’è una preoccupazione per il futuro: quali sono le probabilità di arrivare alla pace con Hamas e le minacce dell’Iran”.
E a livello più personale? “Sto aspettando che mio figlio torni da un lungo viaggio nel Sud America. E sono ossessionato dai problemi legati alle vicende che racconto nel romanzo che sto scrivendo. Per esempio: Lei ama lui? Lui ama lei?”
Sente che la pace è ancora lontana? “Su scala internazionale temo che il livello di scontro diventerà sempre maggiore, con molte tensioni tra le religioni: è come l’avvento di una nuova era di violenza. Per noi uominidi Israele, invece, il futuro potrebbe essere più roseo se il nostro primo ministro – come vorrebbero gli israeliani – fosse più coraggioso e se i palestinesi si dimostrassero disponibili a trattare sulla base di un’adeguata offerta di pace”.